La maggioranza per far passare l’Accordo di libero scambio tra Unione europea e Canada ci sarà. E così domani il contestato Ceta sarà approvato dal Parlamento europeo riunito a Strasburgo. Un segnale forte dell’Europa all’America di Trump: mentre la patria del mercato con l’avvento del presidente tycoon vira sul protezionismo, il Vecchio Continente continua a credere che apertura e libero scambio (se ben regolati) portino benefici a imprese, lavoratori e cittadini.
Affondato il Ttip, il ben più ambizioso trattato con gli Usa, l’importanza strategica del Ceta è lievitata al punto che giovedì, all’indomani del voto, lo stesso primo ministro Justin Trudeau sarà a Strasburgo per festeggiare il successo. Anche se non tutti nel mondo politico e nell’opinione pubblica europea lo considerano tale. E nonostante la partita non sia chiusa: ad esprimersi dovranno poi essere i parlamenti nazionali.
A Strasburgo voteranno a favore il Partito popolare, la prima famiglia politica dell’Assemblea casa di Forza Italia, i liberali e i conservatori tra le cui fila fino alla Brexit siedono anche i Tories. Spaccati i Socialisti e democratici (Pse), tra i cui banchi alberga il Pd: alla fine la maggioranza del secondo gruppo dell’aula voterà a favore, anche se probabilmente francesi, belgi, austriaci e polacchi mostreranno il pollice verso. Compatti sul no comunisti (Gue), Verdi, estrema destra di Le Pen e Salvini (Enl) ed euroscettici di Farage e Grillo (Efd).
Ma perché il Comprehensive Economic and Trade Agreement è così divisivo? L’accordo rimuoverà le barriere commerciali con vantaggi per il business: si prevede che il giro d’affari tra le due sponde dell’Atlantico lieviterà di 12 miliardi l’anno. «In gioco — spiega Alessia Mosca (Pd), coordinatore dei Socialisti e democratici in commissione commercio internazionale di Strasburgo — c’è la possibilità di imprimere alla globalizzazione nuove regole: questo è l’accordo più avanzato e progressista concluso dall’Unione, un riferimento per i negoziati futuri». Ma i critici sostengono che il Trattato negoziato dalla Commissione favorirà le multinazionali a scapito delle piccole e medie imprese. Dal canto loro i favorevoli rispondono che al contrario delle Pmi, le grandi industrie già riescono ad entrare nei mercati protetti, situazione che verrebbe riequilibrata dal Ceta. Il solo abbattimento dei costi per le certificazioni può generare 2,9 miliardi all’anno di crescita, mentre la caduta delle tariffe doganali regalerebbe 460 milioni al manifatturiero e 24 milioni all’agroalimentare.
Il fronte del no ritiene che il Ceta abbasserà i nostri livelli di sicurezza alimentare. I favorevoli ribattono che il testo obbliga il Canada a rispettare gli standard europei: se la carne agli ormoni canadese o i prodotti Ogm non potranno arrivare sulle nostre tavole, Ottawa riconoscerà 145 indicazioni geografiche come Grana Padano e Chianti mettendo fine al dominio dei prodotti contraffatti. Grazie all’accordo il 92% dei prodotti agroalimentari Ue potrà entrare in Canada, come il crudo di Parma, finora bloccato da un marchio locale. Gli scettici temono che il Ceta impatterà su ambiente e lavoratori, gli ottimisti ribattono che prevede l’impegno allo sviluppo sostenibile e lega le parti all’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Altro timore è che l’accordo permetta alle multinazionali di fare causa agli stati condizionandone l’attività legislativa. I favorevoli ribattono che il testo prevede il diritto a legiferare secondo necessità e coscienza e scarta la pretesa degli investitori che le leggi restino immutate nel tempo. Il Ceta non toccherà l’acqua, resta una zona grigia su altri servizi di interesse pubblico. Ma gli europei potranno partecipare agli appalti canadesi, un mercato da 80 miliardi.
Una battaglia di opinioni che non si chiuderà a Strasburgo: domani entreranno in vigore solo le parti del Ceta di esclusiva competenza europea. Per il resto bisognerà aspettare il via libera, non scontato, di 38 parlamenti tra nazionali e regionali. Se già la Vallonia rischiò di far affondare tutto al momento di dare mandato al governo belga, nei prossimi mesi un solo no sarebbe capace di far saltare l’intero trattato.
Repubblica – 14 febbraio 2017