Jenner Meletti. Prove di divorzio, fra la bresaola della Valtellina e lo zebù (Bos taurus indicus, con corna arcuate, gobba e grande giogaia). Le pratiche saranno lunghe ma l’iter è stato avviato. Fra la Filiera agricola italiana della Coldiretti e la Rigamonti spa, azienda leader del settore, è stato infatti firmato un accordo che prevede l’uso di bovini italiani al posto degli zebù nati e cresciuti in Brasile e in altri Paesi dell’America del Sud. Diventeranno bresaola, entro tre anni, trentamila capi italiani ma l’obiettivo è più ambizioso.
«Per la bresaola tutta italiana – dice Alberto Marsetti, presidente della Coldiretti di Sondrio – vogliamo arrivare presto alla produzione di 500.000 bovini all’anno. Si creerà lavoro e soprattutto verrà ricostruita la filiera della carne italiana, ormai quasi scomparsa».
Trattativa lunga e difficile, come era un tempo per i divorzi fra gli umani. Tutto inizia nel gennaio 2008, quando l’Europa mette limiti pesanti alle importazioni di carne dal Brasile. La notizia finisce sui giornali e gli italiani scoprono che la carne per la bresaola non viene fornita dai manzi della Valtellina ma da quegli strani animali dalle corna arcuate.
«Senza lo zebù – dichiarò Emilio Rigamonti, allora titolare dell’azienda e presidente del Consorzio per la tutela della bresaola della Valtellina – dovremmo chiudere le aziende. Lo zebù ha una carne magra e va benissimo per la nostra produzione. I bovini italiani ed europei hanno una carne troppo grassa. E poi, perché prendersela con lo zebù? E’ un bovino come gli altri, ha solo quel nome strano che ricorda Belzebù…».
Claudio Palladi, amministratore delegato di Rigamonti spa (nel 2009 acquistata dalla multinazionale brasiliana Jbs) conferma: «Lo zebù è una razza bovina stupenda. E’ anche allevato bene: nelle fazende ogni capo ha a disposizione un ettaro di pascolo. Con questo accordo siamo però felici di sostenere gli allevatori italiani e di aumentare la quota di produzione 100% italiana. Ci siamo impegnati a comprare tutta la carne che verrà messa a disposizione dagli allevatori del territorio. Certo, avremo bisogno di un bovino speciale: sui 18 mesi, un ‘giovane – adulto’, e anche tonico, abituato al movimento. Insomma, un animale che non può venire da un allevamento intensivo».
I numeri raccontano che la strada sarà lunga. «In Valtellina nel 2016 sono state prodotte 18 mila tonnellate di bresaola, 12.700 delle quali sono Igp. Rigamonti è leader, con 110 milioni di fatturato e il 31% del mercato. Per produrre le 18 mila tonnellate serve il doppio di carne, perché nella lavorazione e nella stagionatura il peso si dimezza. Tenendo conto che noi usiamo solo una parte dei quarti posteriori – la punta d’anca – per portare la bresaola sulle tavole degli italiani e non solo, dobbiamo avere a disposizione circa 6 milioni di bovini. Questo per dire che lo zebù e l’altra carne straniera non scompariranno, almeno per molti anni, dalle nostre tavole. E non è per una questione di prezzo. La bresaola viene venduta cara perché la materia prima che usiamo, italiana o di oltre confine, deve essere di primissima qualità».
Le bresaole che si preparavano nelle case o nelle macellerie della Valtellina sono solo un ricordo. Come del resto, i salami, i prosciutti e tutto ciò che veniva preparato nelle case contadine. «La bresaola della Valtellina è nata con l’industria negli anni ’80 e si è sviluppata subito con la carne estera. Dove sono, in Italia, i territori dove un bovino può avere a disposizione un ettaro di pascolo?».
Negli ultimi 15 anni il consumo è cresciuto – caso unico nel mondo dei salumi – del 43%. La bresaola è presente su otto tavole italiane su dieci. Secondo un sondaggio Doxa del 2016, voluto dallo stesso Consorzio di tutela della bresaola della Valtellina Igp, l’84% dei consumatori chiedono di “sapere da dove vengano i bovini utilizzati per produrre la bresaola” e vogliono che l’origine sia indicata in etichetta.
«Le bresaole Made in Italy al 100% – dice Alberto Marsetti della Coldiretti – avranno l’etichetta ‘Firmato dagli Agricoltori Italiani’. Anche nell’allevamento da carne, siamo tornati in pista».
Repubblica – 6 luglio 2017