Sarebbe utile anticipare i trattamenti per chi perde il lavoro tra 62 e 66 anni ma spesso si diventa disoccupati molto prima. L’Italia ha realizzato numerose e importanti riforme pensionistiche dal 1992 ad oggi, che hanno stabilizzato la spesa pensionistica e depotenziato i principali squilibri. Il sistema contributivo italiano è ancora però in parte incompleto e si allontana dalla sua versione “pura”.
Il meccanismo di indicizzazione è imperfetto e i coefficienti applicati non sono “pienamente contributivi” e non differenziati per genere e coorte. L’uscita dal sistema dovrebbe essere flessibile, non rigida come è adesso, con un ovvio aggiustamento attuariale nelle prestazioni. Credo sia difficile perciò che l’azione di revisione della spesa che il governo dovrà fare non consideri anche quella pensionistica.
Una buona direzione di riforma è quella suggerita di recente da Yoram Gutgeld di anticipare i trattamenti pensionistici per chi perde il lavoro tra i 62 e i 66 anni – si può forse ritenere solo un po’ troppo alta la soglia dei 62 anni, dato che molte uscite dal mercato del lavoro avvengono in età più basse. Ma abbassare di più ridurrebbe molto i trattamenti. Naturalmente questa misura agirebbe sul piano dell’equità generazionale e dei conti pubblici se si chiarisse la sua natura di semplice anticipazione, con una riduzione dei trattamenti una volta in pensione. Ma vi sono anche altre misure ai fini del riequilibro del conflitto generazionale.
La questione molto dibattuta è quella di un prelievo sulle pensioni retributive, soprattutto se al di sopra di una certa soglia. Se condivisibile sul piano dell’equità generazionale, esso è di difficile applicazione. Va ricordato innanzitutto che mentre la legge Dini prevedeva l’opzione per il contributivo, dal 2001 questa possibilità è stata sospesa per i retributivi. È difficile poi considerare indebita la pensione retributiva a chi è stata negata dallo Stato la possibilità di passare al sistema contributivo. Le regole esistenti non prevedevano d’altronde una precisa corrispondenza tra pensioni e contributi versati. Il calcolo sugli ultimi cinque anni (o ultima retribuzione, nel settore pubblico), le regole di settori come i militari, le pensioni di anzianità e i prepensionamenti, sono gli esempi più chiari a cui si accompagnano, per chi ha un po’ di memoria, miriadi di norme volte a favorire un settore o una categoria.
Se questo prelievo venisse applicato sarebbe poi necessario passare da ipotesi generiche di carriere retributive e contributive a carriere individuali effettive, definendo cosa utilizzare e cosa no, e quindi il rischio di un contenzioso infinito sarebbe elevato: anni regalati, contributi figurativi, contributi di solidarietà, sottocontribuzioni come andrebbero considerati? Quali coefficienti di trasformazione considerare, quelli attuali o quelli da calcolare nei diversi anni di pensionamento? Altra “piccola” questione è che per camminare su questa strada si devono avere a disposizione le storie contributive. È possibile averle in tempi brevi? Sicuramente no, sia per il pubblico impiego, sia e anche per alcuni settori del lavoro autonomo, si deve ricorrere a stime più o meno estese.
L’altro aspetto cruciale importante è quello di un riequilibrio “solidaristico” all’interno del sistema pensionistico. Qui il padre delle nostre riforme previdenziali, Giuliano Amato, ha da tempo proposto un riequilibrio interno al sistema pensionistico, che vada a favore delle pensioni più basse chiedendo un sacrificio a quelle più elevate. Come chiarito dalla Corte costituzionale, le pensioni non possono essere colpite da contributi speciali per aumentare il gettito fiscale, poiché ciò violerebbe il principio di eguaglianza in materia fiscale (andrebbero colpiti anche gli altri redditi di pari importo – art. 47 Costituzione). L’esistenza di una componente solidaristica nel sistema di previdenza pubblica obbligatoria appare importante. E l’art. 38 della Costituzione prescrive che siano assicurati ai pensionati «mezzi adeguati alle esigenze di vita» e affida il compito di farlo ad «organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato». Un contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate può rientrare in gioco con finalità molto diverse da quelle che hanno portato la Corte a dichiararlo illegittimo. Dato il numero elevato di individui che ricevono e ancor più riceveranno pensioni a volte addirittura inferiori all’assegno sociale, occorrerebbero «circa sette miliardi per portarli tutti ad almeno settecentocinquanta euro e circa quindici per portarli a mille». Un contributo di solidarietà come quello di cui si è discusso in passato non basterebbe, sarebbero necessarie risorse fiscali.
E la proposta più efficace è quella che suggeriva appunto Giuliano Amato: «Bisognerebbe organizzare diversamente l’intero monte contributi, destinando una quota di quelli versati da ciascuno – una quota crescente al crescere del reddito – a un fondo comune, che integra le pensioni a tutti i pensionati fino al livello minimo stabilito. Una nuova architettura, ma con fondamenta solide tanto nella storia originaria della previdenza, che nacque come mutualità solidale fra i lavoratori, quanto nella stessa Costituzione, che alla mutualità solidale offre espliciti riconoscimenti». 7 Il nostro sistema previdenziale è basato sul modello contributivo puro, con prestazioni pensionistiche determinate dai contributi versati dal lavoratore nell’arco della sua vita attiva. Il sistema, che prevede un equilibrio attuariale tra contributi versati e prestazioni monetarie pagate, è finanziato con il sistema della ripartizione (pay-go) in base alla quale le coorti dei lavoratori attuali finanziano direttamente le pensioni vigenti. I conti contribuitivi dei lavoratori sono dunque “nozionali” e al momento del pensionamento diventano la base per il calcolo della pensione maturata, calcolo effettuato con coefficienti di trasformazione che tengono conto anche della speranza di vita del lavoratore.
Mauro Marè – Il Sole 24 Ore – 21 gennaio 2015