Pesa la campagna di Michelle Obama contro lo junk-food E con la ripresa le famiglie Usa vogliono mangiare meglio. Gli americani stanno davvero imparando a mangiare meglio. La prova: il simbolo del fast-food made in Usa è in crisi. Il “doppio arco dorato”, la sigla riconoscibile a grandi distanze in autostrada, non scintilla più.
Il re degli hamburger McDonald’s è costretto a licenziare il proprio chief executive e a chiamare un nuovo timoniere, nella speranza di risollevarsi. Ironia della sorte: il successo della campagna salutista di Michelle Obama costa la poltrona ad uno dei pochi top manager afroamericani saliti al vertice di una multinazionale di queste dimensioni. E’ Don Thompson a fare le spese del ribaltone al vertice, dopo meno di 5 anni alla guida di McDonald’s. Lo sostituisce Steve Easterbrook che si era fatto un’esperienza “etnicamente” più variegata, lavorando in catene di fast-food come PizzaExpress e la giapponese Wagamama.
Il declino di McDonald’s è sintetizzato in queste cifre relative all’ultimo trimestre 2014: meno 3,6% negli ingressi di clienti nei suoi fast-food a livello globale, meno 4,1% nei punti di ristorazione sul territorio Usa. A questo calo di frequentazione corrisponde una caduta più pronunciata negli utili: meno 21% nel quarto trimestre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il titolo in Borsa aveva perso quasi il 15% del suo valore, anche se ha avuto un piccolo rimbalzo alla notizia del cambio di chief executive.
Il ruolo di Michelle Obama non è un’illazione. La campagna salutista della First Lady è diventata un elemento trainante e un catalizzatore di energie, per tutti coloro che cercano rimedi all’epidemia di obesità di massa. Con i suoi video “virali” su YouTube (sessioni di ginnastica aerobica per dimagrire), l’orto botanico “bio” nei giardini della Casa Bianca, e soprattutto l’iniziativa per diffondere frutta e verdura nelle mense scolastiche, Michelle contribuisce a cambiare le abitudini alimentari dopo generazioni di peggioramento. Su Usa Today un esperto di alimentazione, il professor Christopher Muller dell’università di Boston sintetizza così l’impatto di queste campagne: «Gli studenti che frequentano i miei corsi non ci pensano neppure a entrare in un McDonald’s. Gli hanno insegnato che fa male. C’è un’intera generazione che non vuol più avere nulla a che fare con McDonald’s».
I vertici della multinazionale lo sanno, e da tempo cercano di adattarsi a questi cambiamenti di costume. Dapprima McDonald’s ha accettato di pubblicare i contenuti calorici, poi di ridurre alcune razioni, e diversificare il menu aggiungendoci anche le insalate. Le difficoltà di questa operazione di rilancio nascono anche dal fatto che McDonald’s fronteggia sfide molteplici. Non c’è soltanto il salutismo della First Lady. Un altro fattore che porta via clienti è la ripresa economica americana: con l’aumento del potere d’acquisto, una fascia di clientela medio-alta preferisce nuove catene di hamburger “di lusso” come Shake Shack. Poi c’è la crescente diversità etnica di un mercato come quello americano. Non a caso tra le catene di fast-food che resistono meglio di Mc-Donalds’ figurano quelle specializzate in cibi messicani come Chipotle, Taco Bell, El Pollo Loco. Fino a qualche anno fa McDonald’s poteva consolarsi con il boom dei suoi ristoranti nei Paesi emergenti, Cina in testa. Ma adesso anche quei mercati hanno una pausa, vuoi per il rallentamento della crescita, vuoi perché la campagna anti-obesità sta varcando tutte le frontiere.
Repubblica – 30 gennaio 2015