Duecento imprese tra agricoltura e industria, 2mila addetti diretti e altri 3mila nell’indotto, 1 miliardo di euro di valore alla produzione e – come asset – 42 milioni di galline che scodellano ogni anno oltre 13 miliardi di uova, rendendo il Paese più che autosufficiente.
Sono i numeri di una filiera agroindustriale fresca di riconoscimento ministeriale. «È un risultato importante per il comparto, perché il contratto di “filiera uova” da un lato sblocca 30 milioni di investimenti agevolati, grazie a Cassa depositi e prestiti e Mipaf, dall’altro sancisce un coordinamento nazionale, in capo a un consorzio, che ci permetterà di valorizzare il prodotto fresco made in Italy, con un disciplinare e un logo di qualità», spiega Gian Luca Bagnara, alla guida sia di Assoavi, l’Associazione nazionale avicunicola che rappresenta oltre il 70% del settore sia dell’Organizzazione interprofessionale di filiera, cui aderiscono pure Confagricoltura, Coldiretti, Cia e Confcooperative.
Un sistema compatto, ora riconoscibile e riconosciuto, per i produttori di una commodity come l’uovo, che da sempre faticano ad aver accesso al credito bancario e che ora potranno beneficiare di risorse certe a tassi agevolati per ammodernare le tecnologie e potenziare i sistemi di tracciabilità. E avvicinarsi così agli ulteriori standard di qualità che confluiranno a breve in un disciplinare di produzione e in un “bollino”, sul modello francese della Label Rouge.
«Siamo alle battute finali del processo: il disciplinare è in fase di riconoscimento al ministero – assicura Bagnara, che ha iniziato tre anni fa l’istruttoria per l’attestazione di filiera – tra 15 giorni avremo una riunione in commissione a Bruxelles con Copa-Cogeca (l’interprofessione europea di agricoltori e cooperative agricole, ndr) e stiamo definendo il logo che garantirà la qualità del prodotto fresco italiano sullo scaffale».
Oggi Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia accentrano il 40% della produzione nazionale di uova e oltre il 50% dei centri di imballo e commercializzazione. Meno del 60% del prodotto finisce in guscio al consumo, oltre il 40% viene trasformato (industria dolciaria e della pasta sono i primi clienti) . E qui si apre il prossimo impegno di una filiera compatta che mira a valorizzare il made in Italy: dare gas all’export, che oggi incide meno del 10% del trasformato, ma che è la prima leva per stabilizzare produzione e prezzi.
Ilaria Vesentini – Il Sole 24 Ore – 2 marzo 2016