I fattori che influenzano il modo con cui sono percepiti i claim salutistici. Le indicazioni salutistiche sono affermazioni che dovrebbero attrarre verso un alimento in virtù dei suoi possibili benefici, pur senza favorirne un consumo eccessivo e così rendendo la dieta nel suo insieme sbilanciata. Questo quanto prescrive la normativa UE.
Tuttavia, ci sono tante variabili che influenzano questa percezione: ed è possibile che la positività del messaggio non sempre sia compresa dal consumatore.
Claim lunghi?
I primi fattori che entrano in gioco sono quelli relativi alla struttura dei claim i quali possono essere formulati in maniera breve, esponendo solo il beneficio associato, o in modalità più lunga e dettagliata. Secondo lo studio pubblicato, sembra che le popolazioni che prediligono questa seconda opzione siano quelle già esposte ad un mercato ricco di claim salutistici (Finlandia e Svezia), che hanno fiducia nelle autorità scientifiche e attitudini positive verso queste tipologie di prodotti.
I claim salutistici possono anche essere suddivisi tra quelli che annunciano un beneficio e quelli che promettono una riduzione di rischio, ossia un riduzione di un evento negativo. Secondo i risultati della review, gli individui sembrano essere più sensibili a possibile perdite più che a possibili vantaggi rendendo di fatto le diciture formulate in maniera “negativa” più attraenti.
Riduzione dei rischi o aumento dei benefici?
Non tutti i prodotti sono “idonei” a vantare un claim. Infatti i claim salutistici sembrano maggiormente accettati dai consumatori in quei prodotti che già evocano un’immagine salutare o che già sembrano possedere effetti benefici. Ad esempio, un claim alla carne di maiale può essere percepito come una perdita di naturalezza del prodotto, cosa che non avviene ad esempio con lo yogurt.
Naturale versus innaturale
Ulteriormente, un claim che si sovrappone ad un beneficio già presente nel prodotto è, invece, mal visto dal consumatore. Ad esempio un claim su prodotti integrali oppure l’aggiunta di flavonoidi a frutta e verdura che indurrebbero il consumatore a percepire una manipolazione del prodotto, alimentando preoccupazioni circa il gusto o la sicurezza.
Valore semantico del cibo
Un claim salutistico potrebbe poi evocare nelle fantasie del consumatore – ad esempio, su cibi percepiti come gustosi- anche una perdita di piacevolezza e quindi del valore edonistico dell’alimento. Poiché quest’ultimo è in cima alle ragioni di acquisto dei prodotti alimentari, la sfida nel promuovere alimenti con health claim è anche quella di superare questa barriera.
Aspetti demografici e gruppi della popolazione europea
Altri elementi da prendere in considerazione sono i fattori connessi con il consumatore. Rispetto a sesso ed età non lo studio non parla di relazioni statisticamente rilevanti circa le differenze di percezione dei claim salutistici, anche se c’è da dire che, come sempre, ogni categoria ha diverse sensibilità alla tipologia di informazione veicolata.
La nazionalità sembra essere invece l’elemento che maggiormente influenza la differenza nella percezione degli health claims. In un progetto europeo sui claim nei prodotti a base di cereali si è scoperto che gli italiani ad esempio preferiscono i prodotti senza alcun tipo di dicitura. I consumatori finlandesi preferiscono i claim di riduzione del rischio, mentre nel Regno Unito i claim di beneficio sono quelli maggiormente attraenti. Anche nei paesi nordici con la stessa varietà di prodotti e tipologie di consumi, la percezione delle indicazioni salutistiche varia notevolmente. La risposta maggiormente negativa è stata riscontrata in Danimarca, dove le indicazioni sulla salute sono apparse solo con il reg. (CE) 1924/2006 mentre in Svezia e Finlandia mercati a cui la presenza di prodotti di questo tipo era già nota, la risposta è stata sicuramente più positiva.
Un altro aspetto individuale abbastanza scontato ma determinante nell’attrazione verso questi prodotti è la diversa sensibilità e la percezione dell’importanza del benefico/riduzione di rischio. Dallo studio emerge che consumatori con membri della famiglia che soffrono di una determinata patologia sono più sensibili ai claim sulla patologia in questione, rispetto ad individui che non sono in contatto con realtà di questo tipo.
Non per ultimo, da considerare anche la modalità con cui il consumatore elabora le informazioni. Un fattore direttamente connesso con la risposta dei consumatori rispetto ai claim salutistici è la familiarità, di qualsiasi tipo rispetto al composto funzionale, il beneficio o il prodotto in sé. Utilizzare una sostanza che sia già in commercio accompagnato da diciture salutistiche sembra creare una maggiore percezione di beneficio rispetto ad un nuovo elemento. Questo suggerisce che la sostanza può essere già riconosciuto su altri alimenti suggerendo effetti benefici senza la necessità di ulteriori claim e infatti gli studi propongono che ulteriori informazioni rischiano di sovraccaricare la dicitura, con un esito sulla percezione del prodotto che può essere positiva o negativa, ma comunque imprevedibile.
Infatti, quando le informazioni sono mancanti o insufficienti per comprendere il beneficio, il consumatore è portato a creare autonomamente delle associazioni. Il ruolo della familiarità e le discrepanze osservate nella risposta ai claim salutistici possono essere spiegate attraverso il “elaboration likelihood model” il quale afferma che ci sono due canali di elaborazione: il canale centrale dove viene speso più tempo e fatti più sforzi per elaborare le informazioni e il circuito periferico, che è rapido senza sforzo e sfrutta degli stimoli facilmente disponibili e associazioni già consolidate per formulare dei giudizi. La familiarità con il prodotto, intesa anche come precedente conoscenza, può rendere l’elaborazione centrale più basata sull’informazione contenuta in etichetta, riducendo i fattori di confondimento relativi ad altre variabili.
Un secondo modello fa una stessa distinzione di elaborazione di informazione, ma afferma anche che questi due canali non sono esclusivi, ma possono intrecciarsi l’uno con l’altro. Questa teoria introduce anche il dato relativo al bagaglio di conoscenza e il gap tra conoscenza desiderata e quella reale. Quando l’informazione è rilevante per le nostre necessità, la richiesta di accuratezza nel claim è maggiore e rischia di aumentare il divario tra la conoscenza desiderata e quella reale, causando una possibile insoddisfazione al momento dell’acquisto.
Conclusioni: Il claim salutistico come valore aggiunto o come elemento di confusione?
Entro il reg. (CE) 1924/2006 all’art. 5.2 si impone l’utilizzo di indicazioni comprensibili e chiare per il consumatore o meglio il claim “è consentito solo se ci si può aspettare che il consumatore medio comprenda gli effetti benefici secondo la formulazione dell’indicazione”. La domanda naturale è se le indicazioni salutistiche che ritroviamo in commercio abbiano subito il vaglio e la valutazione anche secondo questo criterio legislativo. Per valutare un claim il consumatore necessita di capirne il contenuto, e decidere se il beneficio sia rilevante per sé stesso. Questo richiede uno sforzo, un processo decisionale, decisamente opposto alle modalità abitudinarie di scelta dei prodotti. Gli studi riguardanti la comprensione degli health claims da parte della popolazione sono ancora troppo pochi e scarseggiano i metodi efficaci -ma soprattutto, validati normativamente- per una valutazione obiettiva di questo aspetto. Alcuni autori hanno proposto una classificazione della comprensione in “sicura”, “vaga” e “rischiosa”. La comprensione “sicura” non intende nulla al di là di quanto esplicitato in etichetta. Al contrario, una comprensione “rischiosa” si basa su considerazioni chiaramente al di là di quanto affermato nel claim, mentre la comprensione vaga non è riconducibile a nessuna della precedenti. I risultati dimostrano che il 67% dei rispondenti sono classificabili come sicuri mentre il 21% come rischiosi. I consumatori insomma aggiungono informazione propria ai claims, talvolta assolutamente estranea agli stessi messaggi ed in direzioni sconosciute (es, effetti positivi collaterali non indicati).
Se i risultati sono questi ci si chiede come siano state fatte le valutazioni per adempiere a questa prescrizione di legge.
In questo ambito l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare è l’organo deputato a valutare la correttezza delle diciture sulle etichette dei prodotti da un punto di vista scientifico. Ma le aziende che hanno proposto claims si sono dovute sobbarcare solo l’onere della veridicità scientifica/biologica dei claims, senza fare ricerche sulla corretta comprensione dei consumatori. Ed il parere di EFSA con la proposta di “wording”, viene poi passato alla Commissione Europea che sempre in modo “normativo” decide se servano altri elementi di espressione e sintattici per garantire un corretto uso degli alimenti da parte dei consumatori (vedi condizioni di utilizzo ex reg. (UE) 432/2012). Una visione “dirigista” e “burocratica”, che non tiene conto appunto di come pensano ed interagiscono i consumatori con i claim. La cosa fa effetto, perché in prima battuta- nel regolamento del 2006 – l’aspetto della comprensione corretta dei consumatori era invece chiaramente presentata come qualcosa da sottoporre ad attento vaglio.
In Italia l’Antitrust si è presa l’incarico di valutare in modo empirico la “non ingannevolezza” circa i consumatori, ma con criteri ancora una volta di tipo “giurisprudenziale” e con controlli di tipo desk (senza cioè andare a valutare come effettivamente pensano i consumatori con apposite ricerche, peraltro costose).
Sarebbe utile identificare allora una modalità di indagine efficace per valutare se l’individuo sia in grado di comprendere efficacemente l’etichetta di questi prodotti, così come intesa dai produttori. Tutto questo per una necessità di corretto adempimento alla legge e per aiutare i consumatori a fare delle scelte alimentari più consapevoli.
sicurezzaalimentare.it – 28 febbraio 2013