“Aia cresce dell’8,5% e punta su Americhe e Giappone”. Veronesi: “Abbiamo 39 stabilimenti, tutti in Italia. Difficile produrre all’estero, bisognerebbe spostare l’intera filiera”
Eleonora Vallin. Nato nel 1958 per l’estro imprenditoriale di Apollinare Veronesi, soprannominato il «Don Tyson italiano», il gruppo Veronesi ha riunito anni fa sotto Aia (Agricola italiana alimentare) tutti e tre i business di famiglia: mangimi, avicolo e salumi. Aia è oggi un’azienda a filiera completa cresciuta negli anni grazie alle numerose acquisizioni (39 gli stabilimenti) ma soprattutto alla diversificazione dei prodotti.
«Oramai sono migliaia» dice il presidente Bruno Veronesi che ha smesso di contare gli articoli sfornati con i marchi Aia, Negroni, Montorsi (per l’unità alimentare) Veronesi Mangimi e La Pellegrina (per l’unità agrozootecnica). Ma la creatività non ha fine. È appena arrivata a banco frigo la tradizionale porchetta toscana, in forma intera ma affettata e confezionata; e dopo il già sperimentato Kebab – «che ha avuto un enorme successo» – sono in distribuzione anche la Chicken Salade al curry e due nuove versioni dell’ultima nata Dakota, la salsiccia cotta con il “tocco” del barbecue americano. «Le cucine estere contaminano i nostri sapori, ma fuori confine – spiega il presidente – solo made in Italy. Perfino i giapponesi apprezzano i nostri salumi».
Presidente, il 2014 com’è stato archiviato?
«Comunicheremo i dati a maggio. Nel 2013 attestandoci a 2,832 miliardi di ricavi, siamo cresciuti del 3,7% e nel 2014 dovremmo confermare questo trend, con la parte del leone svolta dal fatturato estero che dovrebbe attestarsi ben oltre i 400 milioni rispetto ai 368 del 2013, oltre il 14% circa del fatturato».
Obiettivi per questo 2015?
«Crescere, sviluppare nuovi prodotti, innovare puntando sull’export in Germania ed ex Jugoslavia. Abbiamo già stanziato per il 2015 importanti risorse per aumentare l’efficienza dei nostri stabilimenti con robotizzazione e nuove linee di produzione».
La Borsa è un’opzione sul tavolo?
«A breve no, anche se è un’opzione che teniamo in considerazione. Siamo preparati, abbiamo le carte in regola, l’azienda cresce e bisogna pensare al futuro, anche nell’ottica di un naturale passaggio generazionale».
Lei è la seconda generazione, la terza è già in azienda?
«Sì, ma da anni la famiglia è solo azionista,con rappresentanti della seconda e terza generazione che siedono nel CdA della Veronesi Holding Spa, mentre l’operatività è in mano a validi manager».
Novità da fuori confine?
«Abbiamo appena chiuso due contratti con due grosse catene tedesche, la Rewe e Aldi, battendo due importanti competitor grazie alla qualità, l’Ogm free e la tracciabilità di filiera».
I vostri maggiori mercati, Italia esclusa?
«Nell’avicolo abbiamo un raggio di azione di 1.500 chilometri per mantenere il fresco che ha una shelf life (vita del prodotto a scaffale, ndr) breve, quindi arriviamo in Austria, Germania, Croazia, Serbia, Montenegro, Albania, Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo. Sui salumi è diverso: oltre ai mercati europei, possiamo arrivare in Giappone e nelle Americhe, specialmente negli Usa, oggi favoriti dal cambio euro-dollaro».
Mai pensato di internazionalizzare?
«Per ora puntiamo sull’espansione delle vendite. Poi se la creazione di un mercato giustificherà la nascita di un polo di produzione all’estero, siamo pronti a farlo. La nostra, però, non è una produzione facile. Non basta un capannone, dobbiamo esportare un’intera filiera produttiva, e non è facile trovare allevamenti e strutture all’altezza».
Quindi, per ora vince il made in Italy?
«Siamo in controtendenza ma consideriamo un vanto restare e produrre nel nostro Paese, dando lavoro ad oltre 7.400 persone con un’indotto italiano stimato in altri 6.000 addetti».
Nuovi business all’orizzonte?
«No, vogliamo restare focalizzati nei settori dove oggi siamo leader: nell’avicolo, nel suino, negli elaborati e negli affettati».
Il trend delle vendite dei primi mesi dell’anno?
«Siamo in crescita del 4,2% rispetto lo stesso periodo 2014».
Il best seller tra i prodotti?
«Il Wudy, il würstel di pollo, è il più venduto. Il must restano le Sottilissime, ideali per una cucina veloce. In crescita anche i prodotti della linea Aequilibrium con pochi grassi».
Ma com’è nata l’idea di un würstel di pollo?
«Era il 1986 ed è stata una decisione presa al ritorno da un viaggio negli Usa. I dati Nielsen dicevano che in America il würstel di pollo vendeva più di quello di suino. Si è pensato che un gusto già collaudato su un grande mercato potesse funzionare. E così è stato ed oggi Wudy è primo attore nei würstel di pollo con una quota di oltre il 40% del mercato».
L’innovazione dove vi ha portato?
«Verso l’Ogm free e il Gluten free certificato su una vasta gamma di prodotti compresa la nuova Dakota in uscita in questi giorni. Oggi copriamo tutto il mercato e, stando ai dati Iri sul largo consumo, siamo l’unica azienda alimentare in crescita per prodotti venduti a nostro marchio sugli scaffali della Gdo: +8,5% nel 2014».
La Stampa – 20 aprile 2015