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Animal factor. La relazione tra uomini e animali, come e perché è cambiata. Nelle nostre case sono sempre di più. Ma trattandoli come peluche li tradiamo

di Michele Serra. Parecchio tempo è passato e molte cose sono cambiate da quando Pietro Ingrao, leader comunista tanto rispettato quanto inascoltato, spese le sue estreme energie politiche in favore dei “viventi non umani”. Era il 1990, diciannovesimo e penultimo congresso del Pci.

Gli animali come Quinto Stato finalmente in marcia, come estremo e immenso proletariato che “non ha da perdere che le proprie catene”? Non proprio. Ben al di là del “ colore” giornalistico, che su quel discorso proto- animalista si buttò a pesce, l’intenzione di Ingrao era quella di un ambientalista di lungo corso e di solido pensiero: richiamare a una visione olistica del pianeta, con l’uomo custode rispettoso e non padrone arrogante della natura, e una convivenza tra uomini e bestie non più solamente speculativa e/o predatoria.

È bene cominciare da qui. Anzi, è giusto cominciare da qui. Nel complicato, controverso rapporto contemporaneo tra gli uomini e gli altri animali, è indispensabile tenere a mente che lo sguardo dell’uomo contemporaneo sugli animali ha cominciato a cambiare, facendosi più attento e più coinvolto, perché più acuta (finalmente) è diventata la percezione della questione ambientale nel suo complesso; e delle enormi responsabilità dell’uomo nei confronti della biosfera. L’animalismo, per dirla in sintesi, come branca notevole dell’ambientalismo. Un salto di qualità culturale e politico rispetto ai precedenti rapporti di forza: se l’uomo riconosce la propria appartenenza alla natura, e la sostanziale dipendenza dalle sue leggi, ecco che la sua presenza sul pianeta Terra si approssima a quella di tutti gli altri viventi.

Sì, ma si approssima quanto? In che misura gli animali sono “nostro prossimo”? Nella percezione francescana ( nel senso del santo, ora anche del Papa) di fratellanza tra creature di Dio? Fino a quella sostanziale “parità di diritti” che gli animalisti radicali propugnano? Fino all’interruzione della tradizione onnivora dell’uomo messa in atto dai vegetariani, o al ripudio vegano del millenario prelievo di risorse animali (uova, latte, pelli e pellicce) frutto dell’allevamento? Il dibattito, come è noto, è molto acceso, così acceso che richiama l’attenzione di attori politici anche imprevedibili (in chiave ambientalista) come, tra gli ultimi, Silvio Berlusconi, salvatore di agnelli pasquali e ostensore di barboncini vezzosi, ma non conosciuto, almeno fin qui, come nemico della cementificazione o artefice di misure contro l’effetto serra. Perché questo è il nodo: non può esistere un animalismo non ambientalista, sguarnito di strumenti critici nei confronti del modello di sviluppo e dell’impatto sugli equilibri naturali che homo sapiens ha prodotto.

Molti anni fa partecipai a un rissoso dibattito, vicino a Reggio Emilia, sulla caccia. Da giovane urbanizzato, di sinistra e di modi cortesi, ero ovviamente contrario. Un vecchio cacciatore, con un gesto che mi parve ottuso e violento, gettò sul banco degli oratori, con spregio, un paio di uccelli morti. Erano avvelenati dalla chimica, allora usata, in agricoltura, con indiscriminata incoscienza (oggi un po’ meno). «Ne ammazzo molti meno io delle vostre porcherie chimiche», borbottò polemicamente quel vecchio prima di abbandonare la sala. Era un intervento — come dire — poco dialettico; ma mi servì a capire che il dibattito sulla vita selvatica, e sulla vita animale in generale, non ha alcun senso se prescinde da un’idea complessiva della natura e della sua interdipendenza con la civiltà umana.

Anni dopo lessi Wendell Berry, padre nobile dell’ambientalismo americano e dell’agricoltura sostenibile. Era nato, come tutto o quasi l’ecologismo anglosassone, nel mito della wilderness, la natura incontaminata e primigenia contrapposta alla colonizzazione “snaturata” dell’uomo. Durante un soggiorno di studio in Toscana Berry si innamorò della misura armoniosa di quel paesaggio, che gli parve l’incarnazione (imprevista) di un possibile equilibrio tra natura e civilizzazione. Il contrario di “natura” non è “uomo”… Da allora ho vissuto prevalentemente in campagna. Conosco, e posso documentare, la grande differenza tra il numero di specie selvatiche — uccelli soprattutto — viventi nelle zone poco inquinate e in quelle inquinate. Questa digressione per dire che, in merito alla questione animale, e alla tempestosa discussione in materia, mi sono dato questo criterio, che è empirico ma funzionale: mi interessa e mi convince tutto ciò che aiuta a capire attraverso gli animali la natura e le sue leggi, la sua sperimentatissima misura ( è un esperimento scientifico, la natura, in corso da quattro miliardi di anni).

Prendo invece le distanze da tutto ciò che è strumentale, finto, e serve a soddisfare vanità umane o a lenire sensi di colpa, sempre umani. L’appassionata signora che mi ha recentemente spiegato che nutre i suoi cani con cibo vegano (?), per esempio, è ovviamente libera di farlo: ma non mi interessa, nel senso che non mi insegna nulla sulla natura canina e sulla natura in generale, e anzi temo che distorca entrambe. Considero ambientalista il lappone che vive in stretta simbiosi con le sue renne, mangiandone la carne, bevendone il latte e vestendosi con le sue pelli: mentre non considero ambientalista la signora in questione.

Sulla copertina di Pets, il bel libro di Guido Guerzoni a proposito dell’impressionante exploit degli animali da compagnia nelle società benestanti, c’è la fotografia di cane e padrona affiancati sotto un casco da parrucchiere: messa in piega per entrambi. Qualcosa di caricaturale e soprattutto di patologico, che illustra il ruolo di supplenza che una società sterile ha affidato alle bestie, simulacro di figli troppo faticosi da concepire e da educare, se umani. Animali en travesti, con cappottini e psicologi e personal-trainer al loro servizio, sradicati dalla loro animalità e antropizzati come pupazzi viventi. È lo stesso impulso ( anti- naturale) che porta a confezionare spot di cibi per gatti serviti in piatti di porcellana e guarniti di prezzemolo, come le mangerie svenevoli di certi chef: come se ai felini interessasse l’estetica del cibo.

Frutto della stessa stortura ( gli animali come pretesto) è il mutamento in senso “spettacolare” del linguaggio dei documentari faunistici, un tempo legato all’osservazione naturalistica all’inglese, sulla scia di Darwin e del National Geographic, e di quel genio della divulgazione scientifica che è Sir David Attenborough. Oggi volumi e toni portano a strillare di “ animali killer!” e di hit- parade della ferocia, per spettacolarizzare la faccenda, in una deriva pop che sembra fatta apposta per allontanare le persone da un approccio razionale alla natura. Possiamo dire che il ritratto definitivo del peggior rapporto uomo- animale possibile è un tizio che guarda in tv, assieme al suo pechinese ben pettinato, un chiassoso documentario su felini o pitoni o coccodrilli trattati come star dell’horror, mangiando, lui e il suo cane, un hamburger zeppo di antibiotici e anabolizzanti, prodotto della mostruosa filiera agroindustriale che consuma acqua e suolo agricolo a dismisura per produrre le proteine anonime e drogate estratte da bestie ridotte a pezzi di ricambio.

Il rischio evidente di questa zoofilia morbosa è indurre, per contraccolpo, a un “antianimalismo” che sbaglia bersaglio, perché le bestie sono gli ostaggi e non i responsabili. Sono, appunto, il pretesto. Pretesto politico per raggranellare voti, pretesto “culturale” per evitare di fare i conti sul serio con la natura facendone una parodia domestica. La sostanziale rimozione del nostro rapporto con la natura non solo non viene intaccata, ma viene rafforzata da questo genere di animalismo che nega agli animali la loro non- umanità. Riconoscerne e rispettarne la non-umanità, la specifica e prodigiosamente varia identità biologica, è il solo possibile atteggiamento davvero “animalista”. ?

Repubblica – 18 aprile 2017

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