Otto condanne a cinque mesi ciascuno per truffa aggravata ad ente pubblico, su un’inchiesta partita con cento indagati. Si è chiuso così, ieri, il processo a trentasei dipendenti degli uffici rodigini della Regione accusati di essersi assentati dal posto di lavoro. La prescrizione è peraltro alle porte, ovvero a dicembre di quest’anno.
Per gli otto condannati il giudice Silvia Varotto ha ritenuto raggiunta la prova, durante il dibattimento in aula, che si siano assentati indebitamente dal loro posto di lavoro durante l’orario d’ufficio senza utilizzare il badge. La contestazione per gli otto riguarda comunque al massimo un monte di 12 ore, e il danno economico provocato all’ente pubblico ammonta – nel più grave dei casi – a circa 200 euro. Tutti assolti gli altri 28, sia perché il fatto non sussiste sia perché il fatto non costituisce reato. Il pm rodigino che ha coordinato l’inchiesta, Sabrina Duò, aveva chiesto pene oscillanti tra i 12 e i 18 mesi. Dal punto di vista disciplinare, per gli otto non cambia nulla. Con una nota, la Regione spiega che «la sospensione cautelare dal lavoro non è applicabile perché quella prevista specificamente dal cosiddetto decreto Madia del 2016, per la truffa nella rilevazione delle presenze, si applica ai fatti avvenuti dopo l’entrata in vigore della legge». Quindi i dipendenti, prosegue la nota, «rimarranno in servizio e verosimilmente impugneranno la sentenza arrivando alla prescrizione. Il procedimento disciplinare era stato a suo tempo promosso dalla Regione, venendo sospeso in attesa dell’esito del processo, e non potrà essere ripreso fino a sentenza passata in giudicato».
L’inchiesta è partita nel 2009 dall’esposto di un dipendente della Regione, e nella sua fase iniziale era arrivata a indagare la quasi totalità dei lavoratori. Vale a dire un centinaio di dipendenti del Genio civile in larghissima parte, più quelli dell’Ispettorato dell’agricoltura e dell’Urp. Stando all’esposto del lavoratore i suoi colleghi per diversi mesi avrebbero timbrato regolarmente i loro cartellini, salvo poi uscire dalle rispettive sedi anche per diverse ore. Questo per fare la spesa, oppure per svolgere impegni privati sempre durante l’orario di lavoro. L’inchiesta però, dopo la scrematura in fase d’indagini, subisce numerose battute d’arresto. In udienza preliminare, nell’aprile 2013, l’ex giudice per le udienze preliminari Carlo Negri restituisce gli atti al pm Sabrina Duò, spiegando che nel capo d’imputazione non era «correttamente individuato il danno». A settembre di quell’anno arriva la prima assoluzione sempre del Gup Negri. Accusato di nove episodi di presunto assenteismo in tre settimane, a carico dell’imputato non sono emerse prove che il suo comportamento abbia creato un danno economico alla Regione. Il pm Duò cambia il capo d’imputazione e di fronte a un nuovo Gup, Pietro Mondaini, nell’aprile 2015 si arriva al rinvio a giudizio dei 36 imputati. Gli altri 40 escono dall’inchiesta, in 7 assolti con rito abbreviato e gli altri 33 tutti prosciolti. La svolta processuale arriva quando il giudice Varotto nomina un suo consulente, Livio Squarzoni. In aula l’esperto di diritto del lavoro spiega che secondo i suoi calcoli almeno il 70% degli imputati risulta a credito coi pagamenti delle ore lavorate. Ovvero ha lavorato più del dovuto, per importi non pagati che variano dai 50 ai 100 euro in busta paga. La percentuale del 70% poi diventa del 100% se si attua un criterio più elastico nel conteggio del minutaggio delle pause caffè. Ovvero se si tiene buona la prassi autorizzata all’epoca.
Il Corriere del Veneto – 14 marzo 2017