Intervista esclusiva a uno dei creatori, Mark Post, dell’Università di Maastricht. “Se tutto procederà per il meglio, entro pochi mesi sarà ottimizzata la procedura per ottenere carne commestibile partendo da cellule staminali”.
L’annuncio l’ha fatto Mark Post, direttore del Dipartimento di fisiologia dell’Università di Maastricht, in Olanda, uno dei ricercatori più impegnati nel settore, a un congresso dell’American Academy of Arts and Sciences svoltosi a Vancouver. In altre parole è in arrivo la carne “artificiale”. Le poche strisce di massa gelatinosa e insapore tra qualche settimana potranno assumere un aspetto migliore e assomigliare ad una vera bistecca. Immediatamente si sono scatenati, a livello planetario, commenti di ogni tipo, spesso basati su presupposti scientifici errati o viziati da pregiudizi ideologici che hanno bollato il tentativo in atto come desiderio di avere cibo frankenstein da una parte, e unica possibilità di salvezza per il pianeta dall’altra. Perché l’hamburger in provetta eccita gli animi.
Per capire meglio di che cosa si sta parlando, ilfattoalimentare.it ha intervistato lo stesso Post per chiarire meglio la situazione e quali son le potenzialità del progetto.
Professor Post, iniziamo dalle ricerche condotte in laboratorio. In che modo si ottiene la carne artificiale (che è bene chiarire, non c’entra nulla con gli animali clonati)?
In teoria la procedura è semplice. Con una biopsia si prelevano cellule muscolari e da queste si estraggono cellule staminali che si fanno crescere in un brodo di coltura contenente anche siero fetale (particolare importante, vedremo poi perché). Una volta ottenuta una quantità sufficiente di tessuto, lo si fa nuovamente differenziare in cellule muscolari, che vengono poste su un’impalcatura di materiali biocompatibili, biodegradabili, in grado di assicurare una crescita tridimensionale. Nel frattempo si sottopongono le cellule a stimoli meccanici per favorire la formazione di proteine.
Quali sono i problemi principali del procedimento?
L’ostacolo più difficile da superare è quello del contenuto proteico, che in un muscolo normale raggiunge il 95% del peso secco, mentre nel nostro caso risulta inferiore, perché le proteine si formano come risposta a sollecitazioni meccaniche. Inoltre dobbiamo trovare il modo di potenziare la sintesi della mioglobina, che conferisce il colore rosso (al momento la carne è grigiastra) e probabilmente il gusto. Va detto che nessuno ha potuto assaggiare la nostra carne. Il motivo è che il brodo di coltura contiene una proteina animale vietata nell’alimentazione in seguito alla vicenda mucca pazza.
Lei ha annunciato che i prototipi di carne saranno pronti in autunno. Che cosa manca e quanto tempo occorrerà, ragionevolmente, per avere la carne artificiale sul mercato?
Stiamo studiando altri brodi di coltura che non contengano siero animale. L’idea è di utilizzarne uno a base di alghe, per poter modificare il sapore e renderlo gradevole, oltre che abbinare le proteine di carne ottenute con il grasso, in modo da ottimizzare la somiglianza con la carne vera.
Abbiamo calcolato che per avere una massa accettabile 3.000 delle nostre strisce devono essere unite a qualche centinaio di strisce di grasso. Per vedere la carne artificiale al supermercato, bisognerà aspettare ancora 10-15 anni, perché per ora la tecnologia a disposizione è sperimentale e risulta onerosa (l’equivalente di un hamburger costerebbe circa 250.000 dollari). Questo dipende anche dal fatto che finora ci sono stati pochissimi investimenti nel campo, e questo stesso lavoro è possibile grazie a un benefattore anonimo.
Come mai?
Nessuna grande azienda, per ora, vuole che il proprio nome sia associato alla carne artificiale. Si tratta di un investimento ad alto rischio e le imprese sono per natura conservatrici e rifiutano di vedere una cosa che è sotto gli occhi di tutti: l’insostenibilità del sistema attuale per quanto riguarda l’approvvigionamento delle materie prime.
Perché ritiene necessario sostenere questi studi e andare avanti?
È una risposta logica a un problema sin troppo evidente, basta pensare a che cosa succede negli allevamenti intensivi o nei macelli, all’impatto sull’ambiente, e alla possibilità, in futuro, di ottenere carne qualitativamente migliore, con meno grassi (modificando il contenuto in base al tipo di coltura). Nei prossimi 40 anni la domanda mondiale di carne raddoppierà. Già oggi consumiamo 285 milioni di tonnellate di carne l’anno (41 chili a persona), una follia, e gli allevamenti assorbono il 10% circa di acqua e l’80 per cento di terra coltivabile. Non solo: oggi usiamo il 70% della capacità dell’agricoltura per gli allevamenti e questi ultimi danno un contributo formidabile al riscaldamento globale (il 18% delle emissioni di gas serra proviene dall’allevamento) con le emissioni di metano e con l’impronta di tutto il processo di allevamento. Con questo tipo di carne – secondo studi dell’Università di Oxford – potremmo abbattere l’impatto ambientale del 90%”.
Sarà facile far accettare questo tipo di prodotto?
Nessuno lo sa, ovviamente, però è un aspetto su cui si sta lavorando da tempo. Esistono associazioni di ricercatori di diversi paesi – una delle più importanti è patrocinata dalla European Science Foundation – che hanno lo scopo di individuare i problemi, le possibili soluzioni e, soprattutto, interloquire il più possibile con una sola voce con le autorità. Perché quella che può essere una grande opportunità per tutti non sia sprecata per motivi che nulla hanno a che vedere con le sue caratteristiche e potenzialità”.
Agnese Codignola – ilfattoalimentatre.it – 26 febbraio 2012
Bistecche vere, false e presunte
Levata di scudi contro l’hamburger in provetta, ma i problemi dei nostri allevamenti da carne sono altrove
Ancora una manciata di lustri e la popolazione mondiale toccherà quota 9 miliardi. Le previsioni sono quelle dell’Onu e si spingono sino al 2040. E ci si interroga su come accontentare due miliardi in più di bocche da sfamare. Il tema non è di oggi. Negli anni ’70, con una popolazione mondiale di “soli” 4 miliardi già ci si poneva lo stesso interrogativo e molti preconizzavano imminente lo scoppio della “overpopulation bomb”. Una catastrofe a base di fame e miseria. Tanto che si inventarono le SCP (single cell protein), proteine ottenute dalla coltivazione di batteri su substrati di idrocarburi. In pratica bistecche cresciute sul petrolio. Fiorirono gli studi su questo argomento che tenne impegnati a lungo i ricercatori del settore. Poi le Scp tornarono nel cassetto e di loro ci si dimenticò (non prima di averle accusate di ogni nefandezza, sanitaria e culinaria). La temuta penuria di cibo, infatti, aveva trovato risposta nel prodigioso crescere dell’agricoltura, che nel volgere di pochi anni seppe spingere le produzioni a livelli prima impensabili. Merito dei progressi in particolare nella genetica vegetale e animale, oltre che nelle tecniche di coltivazione e conduzione degli allevamenti.
Più cibo
Così lo spettro della fame (mai scomparso però dalle aree povere del pianeta) per lungo tempo è stato messo da parte. Salvo ripresentarsi ora in modo persino più prepotente. Perché domani saremo di più, ma già oggi in molte parti del mondo migliorano (per fortuna) le condizioni economiche e con esse aumenta la richiesta di cibo, carne in particolare. Ma produrre carne in più non è né facile né rapido. A complicare il quadro ci si mettono poi le accuse che agli allevamenti vengono mosse da ambientalisti e movimenti “verdi”. Gli animali, a torto o a ragione, vengono considerati inefficienti nel produrre proteine e in competizione con l’uomo nei confronti di quelle vegetali. Che fare, dunque? Sollecitati da questo importante interrogativo molti ricercatori si sono sbizzarriti nel trovare nuove soluzioni, aiutati in questo dalle nuove conoscenze in campo biologico e non solo.
L’hamburger in provetta
Molto attivi in questo settore i ricercatori dell’Università di Maastricht e fra questi Mark Post che in occasione dell’annuale incontro della Associazione americana per il progresso delle scienze (Aaas), che si è tenuto in questi giorni a Vancouver negli Usa, ha reso noti i risultati già ottenuti nello scorso ottobre coltivando cellule staminali di bovino. Un processo grazie al quale Mark Post conta di realizzare composizioni idonee ad essere presentate come hamburger. La ricerca ha richiesto al momento investimenti notevoli (250mila euro per una “porzione” di hamburger), costi sostenuti da un finanziatore che ha preferito per ora restare nell’ombra. L’importanza del mercato della carne nel mondo (circa 450 miliardi di dollari) ha poi convinto i sostenitori di Post a sponsorizzare non solo le ricerche, ma anche un evento destinato a colpire la fantasia e i media. Sarà infatti un rinomato chef britannico (Heston Blumental) a mettere in padella il primo hamburger nato in provetta. Il nome del “fortunato” assaggiatore non è ancora noto. E c’è da credere che i volontari non siano poi molti…
La bistecca verde
A Vancouver non si è parlato solo delle ricerche di Post per risolvere il problema dell’approvvigionamento di proteine nel mondo. Un percorso analogo è stato intrapreso da Patrick Brown, dell’Università di Stanford, negli Usa, la cui “bistecca” è però di origine vegetale, ma di composizione analoga alla carne e, a quanto afferma questo ricercatore, con la stessa carne condivide consistenza e sapore. Una tecnologia che a parere di Brown potrebbe essere allargata alla produzione di latte o di altri prodotti di origine animale. La scelta “vegetariana” di Brown parte dalla constatazione che le quattro colture vegetali più diffuse e cioè mais, frumento, riso e soia, possono da sole fornire proteine sufficienti a sfamare il mondo del futuro. Il limite, a suo dire, sta nella scarsa disponibilità di terreno a disposizione di queste colture (solo il 4%), mentre la maggior parte dei terreni coltivabili (circa il 30%) è occupato dai pascoli e dalle colture destinate all’alimentazione degli animali. Invertendo le proporzioni, questa la tesi a sostegno della “bistecca vegetale”, il problema si risolve.
Inutili preoccupazioni
Staremo a vedere quali saranno gli sviluppi concreti delle ricerche in corso, magari destinate a finire nel dimenticatoio come le Scp degli anni ’70. O forse saranno capaci di dare una efficace risposta all’alimentazione di un mondo troppo affollato. Prematuro e inutile ci pare oggi ogni giudizio, come quelli negativi che con prontezza degna di miglior causa si sono levati in alcuni ambienti dell’agricoltura italiana. E’ assai difficile che domani le nostre stalle siano costrette a competere con i laboratori olandesi o di qualunque altra parte del mondo. E’ certo invece che si debbano fare i conti con i tagli che arriveranno dalla riforma della Pac. Quelli sì che saranno un problema, specie per gli allevamenti da carne italiani.
Agronotizie.it – 26 febbraio 2012