C’è cafone e cafone. Non è un’offesa se si è sotto stress da caos insostenibile. Lo è, invece, quando è usato per danneggiare morralmente qualcuno. Lo ha chiarito la Cassazione, spiegando che apostrofare qualcuno con il termine cafone non è politically correct ma esistono ampi margini di tolleranza quando scappa in mezzo al traffico, mentre è un’offesa indifendibile se viene utilizzato come sinonimo di maleducato.
Dunque, se lo si usa in mezzo al traffico per insultare un automobilista che blocca la strada, cafone è legittimo e non va condannato. Ci sono, invece, casi in cui apostrofare qualcuno dandogli del cafone è offensivo al di là “delle intenzioni inespresse dell’offensore”. In questo caso scatta anche la condanna per il danno morale patito.
A beneficiare del via libera al cafone un 30enne di Cagliari, finito sotto processo per ingiuria per avere bollato come cafone un automobilista che, parcheggiando male, aveva bloccato il passaggio. Per la Cassazione, “l’ingiuria, se provocata da fatto ingiusto” merita tutte le attenuanti senza escludere l’assoluzione.
Tutt’altra sorte ha avuto una 38enne abruzzese che ha dato del cafone a un agente di polizia dopo che le aveva chiesto i documenti. La ragazza, ricostruisce la sentenza della Quinta sezione penale, era intervenuta in un giardino pubblico, chiamata dal padre cardiopatico che aveva avuto un malore mentre portava a passeggio il cane dopo avere assistito a una caduta accidentale di una bambina.
Sul posto era arrivato anche un agente di polizia che aveva chiesto alla ragazza di esibire i documenti. Cosa che non era avvenuta perché, come ha spiegato la difesa, la ragazza stava cercando di soccorrere il padre. Da qui le frasi al poliziotto cafone, maleducato. Seguito da un “ti faccio vedere io”.
Tre espressioni dette in un momento di concitazione che le sono però costate una condanna per ingiuria e minaccia con tanto di risarcimento del danno morale all’agente, quantificato in mille euro. Vana la difesa in Cassazione volta a segnalare che il termine cafone non poteva essere considerato di portata offensiva dato anche il contesto.
Piazza Cavour ha osservato che “in tema di ingiuria, il criterio a cui fare riferimento ai fini della ravvisabilità del reato è il contenuto della frase pronunciata e il significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo dalle intenzioni inespresse dell’offensore, come pure dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può avere provocato nell’offeso”.
La Stampa – 23 ottobre 2012