Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 31 gennaio 2018 n. 4562. Probabilmente due anni di reclusione potrebbero sembrare pochi se rapportati al reato commesso e soprattutto alle modalità con cui il delitto è stato compiuto. Nella vicenda affrontata dalla Cassazione (sentenza n. 4562/18) il Tribunale di Cremona ha condannato alla reclusione tre soggetti che (nella gestione di canili) con estrema crudeltà e senza necessità avevano soppresso decine e decine di cani e gatti. Molti decessi erano avvenuti perché agli animali erano stati inoculati farmaci che si usano per porre fine alle atroci sofferenze dell’animale in punto di morte.
La vicenda – Ma questi animali, sulla base degli esami eseguiti a seguito, non stavano assolutamente in condizioni di salute gravi tali da giustificare il ricorso al medicinale e quindi di sopprimerli. Il tutto peraltro era stato effettuato non da soggetti veterinari ma da semplici volontari senza alcun titolo. È evidente quindi l’abuso della professione visto che solo ai professionisti è consentito porre fine alla vita dell’amico a quattro zampe dovendo ricorrere precise condizioni cliniche. Resta anche difficile commentare una vicenda di questo tipo non solo per la crudeltà che ha segnato la “strage” di animali ma anche in funzione della difesa presentata dai tre imputati in Cassazione.
A loro dire gli animali soppressi avevano al collo un cartellino identificativo loro posto in funzione di un’eutanasia ufficiale. La Corte, poi, ha giustificato la legittimità della costituzione come parte civile della Lega nazionale per la difesa del cane. Si legge nella sentenza che in “una siffatta ipotesi l’ente per l’attività concretamente svolta e, appunto, per la sua finalità statutaria primaria, coincidente con la tutela dei cani, ovvero degli interessi lesi dai reati contestati, si fa portatore, secondo il meccanismo di immedesimazione di una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale”. Tornando alla vicenda gli imputati si erano difesi affermando che avessero ucciso gli animali anche sulla base del solo disagio psichico. Non solo. Avevano eccepito come il loro “lavoro” fosse stato svolto senza che fosse stata contestata la continuità, professionalità e onerosità della condotta, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione della stessa.
Le conclusioni della Cassazione – Su quest’ultima eccezione i Supremi giudici hanno rilevato come il reato ex articolo 348 cp (abusivo esercizio di una professione) ha natura istantanea sicché essa non esige un’attività continuativa od organizzata ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata. E nel caso di specie è stato evidenziato come già le sentenze di merito avessero posto in luce come le pratiche di eutanasia ascritte alla tre imputate configurassero delle ipotesi di esercizio della professione di veterinario, in quanto attività allo stesso riservate. Sono stati così dichiarati inammissibili i ricorsi con la condanna per ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di 2000 euro a favore della cassa delle ammende.
di Giampaolo Piagnerelli – Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2018