Chiesto indietro parte del denaro a nove partiti. Diktat alla Lega: «Restituisca tutto, non ha rispettato i termini»
VENEZIA — Il verdetto della Corte dei conti, a lungo atteso sul Canal Grande, è arrivato. Ed è una mazzata. Micidiale per la Lega Nord, che potrebbe pagare molto caro (quasi 2 milioni di euro) il ritardo nell’invio degli scontrini ai magistrati contabili, ma tremenda anche per gli altri gruppi del consiglio regionale, che complessivamente risultano aver speso in modo «irregolare» ben 512 mila euro. Soldi che andranno restituiti alle casse di Palazzo Ferro Fini, stando alla lettera della legge, ma che potrebbero non bastare: la sanzione, infatti, prevede anche la mancata erogazione ai gruppi «colpevoli» dei contributi previsti per quest’anno. Stiamo parlando di 3 milioni di euro.
Il caso della Lega, che pure avrebbe potuto spicciarsi (e vedremo perché) certo rivela profili paradossali. Una breve cronistoria aiuta a capire. Il 29 aprile, una decina di giorni dopo aver ricevuto i rendiconti dei gruppi, la Corte scrive al governatore Luca Zaia chiedendo che vengano spedite anche le «pezze giustificative » delle spese, ritenute così come carenti e insufficienti. Il 27 maggio Zaia invia tutti gli scontrini, le fatture e i carteggi richiesti, tranne quelli del suo partito, il Carroccio, che lamenta di non poterne disporre dal momento che sono sottoposti a sequestro giudiziario, dopo l’esposto alla Procura di Venezia del consigliere Santino Bozza ed i controlli della Guardia di finanza negli uffici al Ferro Fini. I padani chiedono una proroga, che viene negata, e i termini scadono il 29 maggio, come previsto. Due giorni dopo Zaia riscrive alla Corte, spiegando che i suoi hanno depositato proprio il 29 maggio in Procura la richiesta di poter fotocopiare le pezze d’appoggio, che arrivano sul tavolo dei magistrati contabili soltanto il 7 giugno, accompagnate dalla «preghiera» del governatore di riaprire l’istruttoria perché davvero la Lega era gravata da una «impossibilità oggettiva» di anticipare i tempi.
Preghiera rimasta inesaudita. La Corte, inflessibile, si chiede infatti perché, se la sua richiesta di spedire le integrazioni è arrivata in consiglio il 30 aprile, i leghisti si siano attivati in procura solo il 29 maggio, un mese dopo. Risultato: «La Sezione accerta l’inadempimento da parte del Gruppo Liga Veneta-Lega Nord dell’obbligo di regolarizzare il rendiconto sull’impiego dei contributi finanziari erogati a carico del bilancio della Regione ». Una colpa punita dalla legge 213 del 2012 (varata dal governo Monti per il contenimento dei costi della politica dopo lo scandalo di Franco Fiorito nel Lazio) con lo stop ai finanziamenti di quest’anno (627 mila euro) e con l’obbligo di restituire tutte le somme «non regolarmente rendicontate», che nel caso di specie ammontano al totale e cioè a un milione 171 mila euro. Stessa sorte, se la legge verrà applicata fino in fondo, toccherà pure agli altri gruppi, costretti a rinunciare all’intero contributo 2013 (anche quelli, come ad esempio Giuseppe Bortolussi, che risultano disallineati di appena mille euro: complessivamente stiamo parlando di 3 milioni 60 mila euro) ed a restituire tutte le cifre giudicate «irregolari» dalla Corte, che potete leggere riassunte per partito nel grafico qui sotto. Non ce n’è uno che si salvi (il neonato Futuro Popolare, escluso dall’elenco, è costituito da ex Idv e Udc).
I giudici hanno passato al setaccio con puntiglio tutte le voci dei rendiconti, basandosi su due criteri: l’effettiva riconducibilità della spesa al consigliere e la sua «inerenza» all’attività politica del gruppo. Insomma, quei soldi sono stati spesi per un «interesse pubblico »?. La risposta è negativa per moltissime consulenze e collaborazioni (156 mila euro solo per il Pdl, altri 108 mila per il Pd), giudicate «troppo generiche» e comunque attribuite a persone «non qualificate», per diverse spese telefoniche e di cancelleria, e addirittura per stampe e fotocopie. Ma è sui rimborsi spese legati all’attività politica (quelli, a ben vedere, su cui poggiavano gli scandali scoppiati in giro per l’Italia) che la Corte non ha concesso alcuna attenuante, dai ristoranti agli alberghi, dai parcheggi al taxi e via di questo passo. «Il Collegio ritiene che non possa costituire prova della riconducibilità oggettiva all’attività del gruppo la semplice affermazione di aver consumato un pasto o di essersi recato in un determinato luogo (nella maggior parte dei casi neppure contenuta in una dichiarazione a firma del consigliere)» scrivono i giudici. Circostanza «tanto più grave ove si consideri che proprio tali spese potrebbero essere connesse alle attività già coperte dalla diaria». Parole che risuonano come bastonate nella tonnara degli scontrini, delle fatture e delle pezze. Subito rispediti al mittente.
Marco Bonet – Corriere del Veneto – 14 giugno 2013