di Federico Fubini. Carlo Cottarelli suo malgrado è diventato un simbolo. L’uomo chiamato da Washington con un mandato — applicare ciò che aveva appreso al Fondo monetario per tagliare la spesa pubblica — è tornato laggiù senza aver lasciato segni profondi. Gli anticorpi della politica si erano dimostrati troppo più forti, nel 2014. Ma oggi che Cottarelli è direttore esecutivo al Fmi per la circoscrizione italiana, guarda con interesse alla spending review in preparazione nel governo di Paolo Gentiloni.
Come vede il progetto di un nuovo ciclo di tagli per via amministrativa, grazie alla riforma del processo di bilancio?
«Complessivamente questa riforma mi sembra positiva, anche se l’importante non è tanto se gli interventi sulla spesa vengano fatti per via amministrativa o per legge. Un passaggio in parlamento dovrà esserci in ogni caso. Ciò che conta è che già da maggio si agisca, indicando obiettivi di spesa per ciascuna amministrazione centrale. Sempre nell’ipotesi, naturalmente, che in seguito questi obiettivi non vengano modificati».
Sarà più efficace che delegare la spending review a un “commissario” esterno come fu lei?
«La procedura non è molto diversa da quella che avevo proposto all’inizio del mio lavoro nel novembre 2013, che prevedeva la fissazione di tetti di spesa ministero per ministero a primavera, poi una definizione delle misure specifiche prima dell’autunno. Nel mio caso tutto questo veniva preceduto da una ricognizione fatta per tre mesi dal commissario. Di ricognizioni se ne sono fatte abbastanza a questo punto».
Si aspetta azioni concrete?
«La fissazione in primavera di un tetto complessivo di spesa, e di tetti ministeriali, riflette la pratica presente in vari Paesi: è un approccio top-down ed è molto legato alle scelte politiche che si fanno al più alto livello del governo. Per esempio, si può decidere che si intende salvaguardare o aumentare la spesa in istruzione: ma allora vanno definite dall’inizio altre aree nelle quali l’intervento sarà più incisivo. Ed è positivo che lo si faccia con una prospettiva di tre anni. Ma, ripeto, presuppone che poi non si cambi idea».
C’è un rischio che, affidando i tagli ai ministeri, quelli evitino le scelte più corrette ma difficili?
«Il rischio c’è, ma mi pare meglio di ciò che si faceva prima. Nel 2014, quando ero commissario, avevo fatto alcune proposte che non piacevano. A quel punto mancava pochissimo alla presentazione della legge di Bilancio e si è finito per chiedere all’ultimo a tutti i ministeri di tagliare ovunque del 3%, in qualunque modo. Alla fine i tagli sono stati poi un po’ più modulati ma ci si è ridotti a fare le cose in fretta. Non è così che funziona, quando si vuole lavorare sulla spesa in modo sostenibile».
Come bisogna procedere?
«Si individuano per tempo le priorità di settore e si fa in modo che siano chiare le responsabilità politiche, quando si fanno dei tagli. Le uscite pubbliche sono legate a tre grandi settori: gli acquisti di beni e servizi, il personale e i soldi che si danno a qualcuno. Se lo Stato vuole spendere meno, paga di meno per ciò che compra oppure riduce gli acquisti, il personale o magari i trasferimenti. Non si scappa. Non si può pensare di farlo evitando qualunque impatto nel breve periodo».
Da giorni si parla solo di tagli al cuneo fiscale, senza che nessuno si chieda dove e come si trovino le risorse. Curioso, no?
«La necessità di ridurre il cuneo non è nuova. Anch’io fui chiamato per questo e già il rapporto di fine 2013 sulla spending review parlava dell’esigenza di trovare le risorse per farlo. In termini di comunicazione capisco che il governo per ora parli solo dei tagli alle tasse sul lavoro».
I governi di questa legislatura perseguono riduzioni del deficit costanti, ma più lente di quanto prevedano le regole europee. Non trova?
«Il vero vincolo dell’Italia non sono le regole europee: è il debito. È troppo alto e questo ci fa del male. Dunque benissimo continuare a ridurre il carico fiscale sul lavoro, ce n’è bisogno. Ma vanno trovate anche le risorse per ridurre il deficit e sarebbe bene proseguire abbastanza rapidamente, procedendo con un po’ più di decisione verso il pareggio di bilancio».
Risanare più in fretta non ostacola la ripresa?
«Capisco che dopo una profonda recessione non si voglia rinunciare a un po’ di crescita, ma ora la ripresa si sta consolidando e forse è venuto il momento. Ciò che bisognerebbe fare è almeno congelare la spesa in termini reali, consentendo al deficit di ridursi perché le entrate fiscali aumentano proprio con la ripresa. Ma poiché la spesa dovrebbe salire anche nel 2017, dopo essere già aumentata nel 2016, forse nel 2018 servirebbe una piccola riduzione della spesa primaria».
Propone di ridurre la spesa corrente, preservando quella per investimenti?
«Bisogna vedere la qualità. Nei dieci anni precedenti il 2008, la spesa pubblica per investimenti in Italia era quasi doppia rispetto alla Germania, in rapporto al Pil: non sembra aver aumentato il potenziale di crescita. Non illudiamoci che i tagli non abbiano impatto nel breve periodo, ma anche la spesa per investimenti non fa bene all’economia, se è di cattiva qualità».
Il Corriere della Sera – 9 marzo 2017