Tra armistizi e dichiarazioni belligeranti, sono ormai trent’anni che Europa a Stati Uniti litigano per la così detta “carne agli ormoni”. E se il raddoppio dei dazi all’import negli Usa dovesse andare in porto, per migliaia di aziende europee e italiane si profilerebbe un danno rilevante. In particolare nell’agroalimentare, considerato anche il fatto che è tutt’ora in vigore l’embargo all’export in Russia, per la massima parte sulle spalle proprio dell’agroindustria italiana.
Tra ottobre e novembre 1988 l’allora Comunità economica europea (Cee) annunciò che dal primo gennaio avrebbe chiuso le frontiere all’import da Stati Uniti e Canada di carne bovina ottenuta con gli ormoni della crescita. Questo a seguito di una decisione dei Dodici Paesi della Cee che mirava a creare un mercato delle carni bovine ottenute da animali allevati con metodi naturali, e non “gonfiati” con ormoni di accrescimento veloce. Washington replicò con una lista di prodotti importati dall’Europa a cui avrebbe applicato il raddoppio dei dazi: tra questi le conserve di pomodoro, i vini aromatizzati, il cioccolato, le marmellate, i tartufi, alcuni tipi di formaggi. Venne calcolato che circa il 40% dei prodotti colpiti dai dazi Usa fossero di origine italiana.
Oltre al blocco delle carni agli ormoni, la Cee decise a sua volta misure ritorsive come risposta all’innalzamento dei dazi annunciato dagli Stati Uniti, che a loro volta presentarono ricorso in sede Gatt per risolvere il contenzioso commerciale. Il ministro italiano dell’epoca, Renato Ruggero, spiegò che – secondo un sentir comune nella Cee – il tema “carne agli ormoni” in verità nascondeva l’intento dell’amministrazione americana di saggiare la capacità di tenuta della Comunità, in vista dei negoziati che si stavano portando avanti sulla cessazione delle barriere doganali comunitarie, il Mercato unico che vide poi la luce nel ’92.
La storia sembra quindi ripetersi oggi: in un momento non facile per la Ue – tra Brexit, nazionalismi, immigrazione, moneta unica a due velocità – l’amministrazione Usa ripropone con forza il tema dei dazi, strizzando l’occhio alla lobby degli allevatori di bovini.
Il dossier carne e il contenzioso tra Cee e Usa venne di fatto bloccato non dai regolamenti internazionali ma dall’insorgere della Bse, che imperversò in Europa – il primo caso diagnosticato in Gran Bretagna è del 1986 – fino a oltre la metà degli anni Novanta. Le diplomazie delle due sponde atlantiche hanno tuttavia continuato a confrontarsi per raggiungere un accordo, tanto che nel 2009 la Ue accettò un intesa in due tranche per elevare a via a via nel tempo i contingenti di importazione di carne bovina americana di alta qualità, fino a sfiorare le 50mila tonnellate anno. L’accordo divenne definitivamente ufficiale nel marzo del 2012 anche se gli Usa avevano sospeso un anno prima le misure ritorsive e l’applicazione dei dazi sul paniere di prodotti europei.
Ma è solo un armistizio e non una pace commerciale vera. Nel 2013 Unione europea e Stati Uniti cominciano il negoziato sul Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), un nuovo accordo commerciale su un ampio ventaglio di produzioni industriali e agroalimentari. Ma un Europa sempre meno convinta dell’utilità e dei vantaggi del Ttip, arriva a dichiarare lo stop alle trattative nel settembre scorso. Offrendo su un piatto d’argento all’amministrazione Obama l’occasione per dissotterare l’ascia di guerra in tema di carne agli ormoni. Con un comunicato del Dipartimento per il commercio gli Usa dichiarano di voler riaprire la disputa con la Ue sulla carne di manzo agli ormoni. «Agendo su richiesta del settore della carne bovina statunitense – spiega il Dipartimento – è stata fissata un’udienza pubblica anche per individuare particolari prodotti e Stati membri della Ue che possono essere soggetti all’imposizione di dazi supplementari, con l’obiettivo di risolvere questo contenzioso». E così la storia ricomincia.
Roberto Iotti – 31 marzo 2017