Limitandosi solo alle retribuzioni più elevate il taglio si concentrerebbe su 2 dei 16 miliardi di massa salariale dei vertici. I dirigenti pubblici tornano al centro dei progetti di «riforma della pubblica amministrazione» e della spending review, che insieme ai margini sul deficit è chiamata a finanziare il taglio Irpef da 10 miliardi promesso dal premier Matteo Renzi.
Nei giorni scorsi le reazioni si sono concentrate sugli «85mila esuberi» stimati dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli nel complesso degli uffici pubblici italiani, ma i progetti di riforma in cantiere partono in realtà dal nodo-dirigenti e dai loro stipendi.
Su questo punto, le slide da guardare sono prima di tutto quelle presentate dal premier Matteo Renzi, che sul tema dicono due cose: la riforma va messa in cantiere ad aprile, cioè fra pochi giorni, e deve prevedere che nessun «manager pubblico» guadagni più del presidente della Repubblica. Tradotto in numeri, significherebbe far scendere a 239.181 euro all’anno il tetto massimo oggi fissato a 311.658 euro: un bel taglio, il 23,3 per cento, che deve ovviamente essere chiarito nelle modalità ma dovrebbe interesserebbe un gruppo di amministratori di società controllate non quotate (di qui la polemica accesa venerdì dall’ad di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti, che si è detto intenzionato «a cercare un’altra occupazione» in caso di taglio allo stipendio), qualche dirigente apicale di ministeri e amministrazione centrale in genere, e i vertici della Cassazione e delle altre magistrature. Sempre che si riesca a fare, la mossa darebbe un bel guadagno d’immagine al Governo, ma solo un piccolo aiuto ai conti pubblici.
Gli obiettivi di bilancio si incontrano infatti nelle altre slide protagoniste di queste settimane, quelle di Cottarelli, e sono ambiziosi: dal taglio dei trattamenti economici dei dirigenti pubblici dovrebbero arrivare risparmi per 500 milioni l’anno. Obiettivi ambiziosi ma non semplici da raggiungere, come mostrano i dati più aggiornati sulle masse salariali. Vediamo perché.
Ai 156.167 dirigenti in servizio a fine 2012 (dati Conto annuale Mef-Ragioneria generale) corrispondeva una spesa per stipendi da 16,1 miliardi (circa il 10% di quella complessiva del pubblico impiego) compresi gli «oneri riflessi», cioè i contributi sociali pagati dalle amministrazioni.
Ebbene: 14 di quei 16 miliardi sono andati a dirigenti con una retribuzione complessiva annua fino a 72-73mila euro lordi, una fascia che comprende tutti i dirigenti medici del Servizio sanitario nazionale e i presidi delle scuole. Immaginando che il taglio o la riparametrazione degli stipendi sulle medie UeOcse, come ha proposto Cottarelli, non tocchi queste fasce basse, restano circa due miliardi: il primo miliardo rappresenta il costo dei dirigenti dei ministeri, degli enti di ricerca, delle università, degli enti pubblici non economici e della presidenza del Consiglio. Il secondo miliardo arriva invece dal costo annuo dei dirigenti delle Regioni e delle autonomie locali. Se questa è la “massa di spesa aggredibile” il taglio vale il 25% del monte salariale lordo.
Ma c’è un problema: il Governo può intervenire sulla spesa corrente delle Regioni fino a un certo punto, a meno di non immaginare l’operazione con il varo di una norma di coordinamento di finanza pubblica di profilo costituzionale che assicuri questa possibilità, magari in vista dell’annunciata riforma del Titolo V della Carta. Viceversa resta un miliardo di massa stipendiale subito aggredibile su retribuzioni che, secondo la riscostruzione fatta da Aran per il Sole 24 Ore, variano su medie tra i 98 e i 143mila euro lordi l’anno con medie molto differenziate a seconda della numerosità o meno di dirigenti di seconda fascia nelle amministrazioni in questione.
Morale della favola: per centrare il risultato bisognerebbe lavorare parecchio di forbici, e andare a incidere anche su retribuzioni che non si possono definire «d’oro» e che, nel caso delle Autonomie, non sono facili da aggredire. Una prima ipotesi formalizzata è quella presentata nei giorni scorsi dal presidente della commissione Bilancio alla Camera, Francesco Boccia (Pd), e prevede per il 2014-2016 un taglio del 6% per gli stipendi superiori ai 60mila euro lordi l’anno, del 7% per gli assegni superiori a 70mila euro lordi e dell’8% per gli stipendi oltre gli 80mila euro (si veda Il Sole 24 Ore del 19 marzo), “protetta” sul piano costituzionale dall’obiettivo del pareggio di bilancio previsto dal nuovo articolo 81.
I tecnici del Governo lavorano invece a un meccanismo di tetti progressivi e diversificati per dirigenti di I e II fascia, secondo un meccanismo che era già stato ipotizzato lo scorso anno ma era stato subito abbandonato. Ora però i tempi stringono.
Il Sole 24 Ore – 24 marzo 2014