Che fine fanno i ragazzi che non superano il test delle facoltà a numero chiuso? La domanda riguarda all’incirca 80-100 mila giovani che hanno cercato di entrare nell’università dalla porta ritenuta principale e che sono costretti a rimodulare le loro strategie formative.
Sono tre le facoltà che hanno deciso a livello nazionale di adottare le iscrizioni a numero chiuso e sono medicina, architettura e veterinaria. Anche il corso di professioni sanitarie ha un proprio statuto che di fatto equivale a un numero programmato. Ma in realtà ormai in tutti gli atenei la tendenza è quella di monitorare rigidamente i flussi di altre facoltà (in primis economia ma anche ostetricia e marketing) per tenere in equilibrio numero dei docenti e degli studenti.
Il numero chiuso, dunque, è un trend che fa proseliti, di conseguenza non è sbagliato porsi il problema di dove vada a finire chi resta fuori dai portoni. Dalle tre facoltà chiuse per decisione centrale sono rimasti esclusi circa 66 mila aspiranti universitari ai quali vanno aggiunti quelli che incontrano lo stesso destino nelle altre facoltà e nei singoli atenei.
Chi resta fuori da medicina si iscrive per la maggior parte a facoltà affini, in primo luogo biologia o chimica. L’obiettivo è di ritentare il test l’anno successivo e nel frattempo dare qualche esame che possa essere riconosciuto. Perché questa è la prima conclusione a cui giungere: in tanti non si arrendono dopo il primo flop ma utilizzano l’anno che scorre per preparare la seconda chance. Capita così che in alcune città ad essere ammessi a frequentare medicina nel 2013 siano stati molti ragazzi del ’93 che grazie all’anno in più di preparazione sono diventati più «competitivi» di quelli del ’94. Qualcuno, invece, pur di diventare medico prende la strada dell’Albania come documentato di recente dal Corriere . È chiaro che la strategia di recupero imperniata sul ruolo collaterale di biologia o chimica non potrà andare avanti all’infinito perché il numero chiuso sta già arrivando anche lì.
La seconda pratica ricorrente è quella di scegliere una facoltà-parcheggio che quasi sempre è lettere o giurisprudenza. Durante l’anno il ragazzo e la famiglia decideranno se puntare davvero a quel titolo di studio o utilizzare il periodo come un check sulle strategie future. In qualche sede si segnala quest’anno un aumento abnorme delle iscrizioni a lettere, forse proprio in virtù di questa pratica. È evidente che rispetto alla prima strada questa seconda appare meno strutturata e può anche succedere che molte famiglie cambino in corsa la strategia universitaria che inizialmente prevedeva «una facoltà che ti dia lavoro» e che finisce per contemplare come ripiego «la facoltà che veramente ti piace».
Esiste poi un terzo tipo di strategia più creativa e meno convenzionale. Le famiglie che possono permetterselo nell’anno «bianco» mandano il figlio in Inghilterra a perfezionare la lingua. Un modo per impiegare utilmente il tempo e integrare funzionalmente quello che sarà l’insegnamento universitario specialistico. È chiaro che si tratta di una scelta minoritaria e non alla portata di tutti i budget. Così come un’altra soluzione, anch’essa minoritaria ma che merita di essere sottolineata è quella di mandare il ragazzo a fare un’esperienza di vita. Si può trattare di una permanenza all’estero presso conoscenti o ancora di un anno di volontariato nei Paesi in via di sviluppo in collaborazione con le organizzazioni del non profit. Quest’ultima soluzione ricalca un po’ quello che gli americani scelgono per il loro gap year , l’anno che intercorre per molti tra la fine dell’high school e l’inizio della vita in college.
Detto delle strategie familiari prevalenti è giusto anche porsi la domanda se questo stock di universitari respinti non possa diventare nel medio periodo un problema di cui occuparsi. Una decisione corretta è stata quella di anticipare dal 2014 il test di ammissione universitaria ad aprile piuttosto che dopo la chiusura delle scuole, in questo modo gli studenti hanno più tempo per calibrare le proprie opzioni e per evitare errori. Eh sì, perché dietro tutta questo movimento un rischio si corre: che una quota di respinti alla fine vada a ingrossare le fila degli ormai famosi «Neet», l’esercito dei giovani italiani che non studiano e non lavorano. E francamente quell’esercito andrebbe sfoltito, non allargato.
Corriere della Sera – 25 ottobre 2013