Nonostante le promesse di inasprimenti sull’embargo, Washington ha firmato con Mosca un contratto da un miliardo per continuare la collaborazione spaziale e satellitare. Ieri l’agenzia giapponese Kyodo ha trasmesso una nota congiunta che accomuna Giappone e Germania nella richiesta agli Stati Uniti di un alleggerimento della pressione su Mosca. «Più che le sanzioni è necessario il dialogo.
La Germania pensa che ciò aiuterà a rendere anche Putin più flessibile». Nelle stesse ore la cancelliera Angela Merkel aveva ancora paventato che si potessero «inaspirire le misure se la tregua in Ucraina non terrà». Timore, non auspicio. Berlino vuole continuare a smerciare in Russia i suoi macchinari industriali e le sue auto di lusso. Pure la Francia ha i suoi grattacapi con le navi militari Mistral, ordinate dai russi con un mega contratto da 1,2 miliardi di dollari e bloccate nei cantieri francesi. Hollande negli ultimi giorni parlava di distensione economica con la Russia, che minaccia vie legali, avendo già mandato inquirenti in Francia, pur annunciando ieri che aspetterà febbraio per portare in tribunale il contratto non adempiuto.
A fine mese, proprio la Merkel e Hollande sono attesi ad Astana, in Kazakistan, per cercare una mediazione coi capoccia di Mosca e Kiev, Vladimir Putin e Petro Poroshenko, e senza gli americani fra i piedi. A Mosca, giornali come Komsomolskaya Pravda insinuano perfino che le stragi islamiste di Parigi siano state orchestrate dalla CIA americana per “punire” un Hollande tentennante verso Putin. Il “bello”, si fa per dire, è che se i singoli governi nazionali cercano di fare realpolitik, il Parlamento Europeo va avanti per utopie. Dopo che giovedì era passata una risoluzione che plaudiva alla cancellazione del gasdotto South Stream, con cui Gazprom avrebbe dirottato le forniture di metano all’Unione Europea lontano dall’imprevedibile Ucraina, con vantaggio per tutti, una nuova trovata dell’aula di Strasburgo è stata una risoluzione che, appoggiando il blocco della consegna delle navi Mistral alla marina del Cremlino, invita «tutti i Paesi membri a prendere una linea simile per le esportazioni verso la Russia di merci non interessate dalle sanzioni». Questo allo scopo di «l’unità e la solidarietà tra gli Stati UE, prerequisito per il successo di ogni strategia con la Russia». Appello in senso contrario agli sforzi di conciliazione di Berlino e Parigi. Sempre ieri, negli Stati Uniti, principali fautori della linea dura, lo schieramento repubblicano ha invocato dal presidente Barack Obama più durezza. L’ultimo è stato il senatore Robert Menendez, che inseritosi nel solco di colleghi come John Mc Cain, chiede «una nuova tornata di sanzioni nei settori finanziari ed energetici».
Per ironia, nelle stesse ore veniva firmato un contratto da ben 1 miliardo di dollari fra la società USA di lanci spaziali privati Orbital Sciences e la russa Energya-Energomash per la fornitura di ben 60 motori a razzo spaziali RD-181, destinati a vettori di satelliti commerciali. Washington si è finora rifiutata di estendere le sanzioni al campo spaziale, perché Mosca è l’unica nazione, insieme alla Cina, a poter inviare equipaggi umani nello spazio, grazie alle navicelle Soyuz, mentre negli USA i vecchi Shuttle sono in “pensione” dal 2011 e nuove capsule non sono ancora pronte. La stessa USAF, l’aviazione americana ha in magazzino almeno 16 motori a razzo russi, definiti «i più affidabili in rapporto al prezzo». Per gli americani ci si deve dimenticare delle liti col Cremlino, altrimenti nessun astronauta occidentale, nemmeno la nostra Samantha Cristoforetti, attualmente lassù, potrebbe raggiungere la stazione internazionale ISS. E non è l’unico coltello dalla parte del manico per Mosca, che ha annunciato per bocca del ministro delle Finanze Anton Siluanov. Per arginare crisi e inflazione causate dalle sanzioni, almeno 88 miliardi di dollari, parte della dotazione russa di riserve in valuta estera, verranno convertite in rubli, erodendo in tal modo il valore del petroldollaro che già Putin tiene sottotiro da mesi incamerando oro.
Libero – 17 gennaio 2015