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Flessibilità. Cantiere pensioni. Anticipo dell’assegno, estensione dell’opzione donna: ecco le ipotesi allo studio per ritirarsi prima dal lavoro

di Enrico Marro. Pensioni: come si può introdurre più flessibilità in uscita senza svuotare la riforma Fornero e scassare i conti pubblici? Attorno a questa domanda si arrovellano tecnici e ministri almeno dalla fine del 2013 (la Fornero era entrata in vigore da meno di due anni) quando, sotto il governo Letta, venne fuori la proposta dell’allora ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, del «prestito pensionistico». In pratica, si tratterebbe di consentire a chi è a pochi anni dalla pensione (3-4) di prendere un anticipo della stessa sotto forma di un mini assegno (600-700 euro) da restituire in piccolissime rate dal momento in cui scatta la pensione vera.

Una soluzione che converrebbe in particolare ai lavoratori delle aziende in crisi a rischio di diventare esodati e che, secondo i calcoli fatti all’epoca dai tecnici, costerebbe non più di 400 milioni all’anno. Una variante prevede che l’anticipo sia erogato dal sistema bancario (che poi incasserebbe il rimborso rateale, come fosse un prestito), con lo Stato che si accollerebbe solo il costo degli interessi a favore degli istituti di credito.

Il prestito pensionistico, sostenuto all’inizio anche dal successore di Giovannini, Giuliano Poletti, da un lato consentirebbe di lasciare il lavoro prima e dall’altro minimizzerebbe i costi, caricandoli nella sostanza sullo stesso pensionato. E proprio per quest’ultimo aspetto questa proposta non ha mai entusiasmato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Che preferirebbe invece soluzioni semplici e lineari: vai via un po’ prima e quindi prendi un po’ meno, come disse un anno fa, facendo l’esempio della lavoratrice che diventa nonna e vuole godersi il nipotino.

In effetti, questa ipotetica nonna, ancora nel 2016, può andare via grazie alla proroga di «opzione donna», la possibilità di lasciare il lavoro se entro il 31 dicembre 2015 si sono raggiunti almeno 57 anni e 3 mesi di età per le lavoratrici dipendenti (un anno in più per le autonome) e 35 anni di contributi. Un anticipo consistente rispetto ai requisiti richiesti dalla legge Fornero, ma che si paga a caro prezzo perché tutto l’assegno viene calcolato col metodo contributivo e quindi ci si rimette mediamente il 25-30%. Una scelta, di nuovo, che può convenire solo alle lavoratrici delle aziende in crisi o a quelle che hanno un reddito familiare elevato e quindi non soffrono più di tanto della penalizzazione. Lo stesso discorso varrebbe nell’ipotesi in cui si estendesse l’opzione donna a tutti i lavoratori, magari aumentando la soglia d’età per accedervi: il costo per il bilancio sarebbe gestibile ma ne usufruirebbero in pochi.

Sul tavolo, quindi, ci sono anche proposte di portata più generale. Classica quella delle penalizzazioni: o sotto la semplice formula che per primi hanno proposto Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta del Pd (2% di taglio della pensione per ogni anno di anticipo fino a un massimo di 4 anni) o nella forma più sofisticata suggerita dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, che riparametra l’assegno in base alla sua prevedibile durata, il cui risultato finale sarebbe di un taglio della pensione di circa il 3% per ogni anno di anticipo. Queste proposte, finora, sono state ritenute troppo costose e, soprattutto, non tali da superare l’esame della commissione europea.

Recentemente, il 22 febbraio scorso, il Coordinamento statistico dell’Inps, in una audizione informale nella commissione Lavoro della Camera, ha depositato una simulazione sull’impatto di una norma che consentisse di andare in pensione a partire da 63 anni e 7 mesi di età (quindi fino a 4 anni prima della soglia attuale) con 35 anni di contributi. Ipotizzando che questa possibilità fosse utilizzata dal 70% della platea potenziale, si dovrebbero mettere in conto 98 mila pensioni in più nel 2017 che salirebbero di anno in anno fino a 206 mila in più nel 2026, per un maggior costo che lieviterebbe dagli 1,5 miliardi (al lordo delle entrate fiscali) nel 2017 ai 3,3 miliardi nel 2026. Un onere non impossibile su una spesa previdenziale annua di 277 miliardi, ma che il governo non sembra in grado di accollarsi in questa fase.

«Stiamo verificando, la decisone sarà politica», dice il viceministro dell’Economia, Enrico Morando. Prosegue così uno stallo in cui solo i dipendenti delle grandi aziende (da Enel alle banche) riescono ad andare in pensione prima senza rimetterci (le imprese pagano per mandarli via) mentre i lavoratori più deboli, nei cantieri edili e nei capannoni delle piccole fabbriche, devono aspettare 42 anni e 10 mesi di lavoro oppure 66 anni e 7 mesi d’età. Se prima non finiscono esodati.

Il Corriere della Sera – 5 aprile 2016

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