Maria Miroballi è un medico. Lavora in un Servizio per le Tossicodipendenze nell’hinterland romano. Fino a due mesi fa, tre volte alla settimana, faceva i 30 km che dall’ufficio la portano al Policlinico di Tor Vergata della capitale per sottoporsi alla dialisi.
Di sera, in modo che il periodico lavaggio dei sangue di cui ha bisogno a causa del malfunzionamento dei reni interferisse meno possibile con la sua vita e con il suo lavoro. Ma da settembre l’organizzazione delle sue giornate è saltata, insieme al turno di dialisi notturno di Tor Vergata. Il numero di medici e infermieri non era sufficiente a garantire il servizio serale. Assumerne di nuovi è impossibile per via del blocco del turn over che negli ultimi cinque anni ha sottratto circa settemila dipendenti, tra medici, infermieri e tecnici alla sanità laziale. E adesso Maria rischia il lavoro.
«Devo sottopormi a dialisi tre pomeriggi a settimana. E ciò significa che mi è impossibile coprire tutti i turni», racconta. Va così a Roma, dove i servizi di dialisi degli ospedali pubblici stanno cadendo come le tessere di un domino sotto la spinta di una carenza di personale che è ormai diventata insostenibile. Via il turno di notte all’ospedale San Camillo. Riduzione dei turni al Santo Spirito. In bilico la dialisi del Fatebenefratelli. Al San Giovanni, nel volgere di pochi mesi sono stati prima smantellati i posti letto del reparto di Nefrologia, poi dimezzati i posti del servizio dialisi, infine eliminata la guardia nefrologica notturna: per le urgenze i pazienti dovranno rivolgersi al lontano ospedale Sant’Eugenio.
«Che le devo dire? È come in tutta Italia. Siamo rimasti io e altri tre medici. Venti giorni fa, dopo un turno di 12 ore, mi sono ritrovato da solo ad assistere i malati che facevano dialisi», dice il primario del reparto, Alessandro Balducci, 62 anni e alle soglie della pensione. Invano le direzioni generali degli ospedali hanno chiesto alla Regione Lazio una deroga al blocco per poter assumere dei nefrologi. II fatto è che medici e infermieri sono costretti al superlavoro e «quando non si può più garantire la sicurezza del personale e dei malati siamo costi cui a ridurre i serviti», dice Angelo Tanese, il direttore generale della Asl Roma E a caci fa capo l’Ospedale Santo Spirito. Chiuse o ridotte le nefrologie ospedaliere ai malati tocca di andare nelle case di cura e nei centri dialisi privati. Che prosperano all’ombra della crisi. E che comunque, il più delle volte, quando, come spesso succede, le condizioni del malato si aggravano, lo scaricano di nuovo sull’ospedale. Secondo il database della Società italiana di Nefrologia, a Roma dei 750 posti dialisi disponibili, più di 400 sono privati, quasi sempre accreditati e quindi retribuiti dalla mano pubblica.
Quella del blocco del turnover è una storia che parte da lontano. Innanzitutto dal provvedimento che riguarda tutto il pubblico impiego, congelato fino al 2017. Per ospedali e As] c’e una deroga, ma a patto che abbiano i conti in ordine. Quindi le regioni con debiti monster soggette a Piani di rientro non possono sostituire i pensionati, ma anche quelle virtuose, spinte dalla crisi di cui abbiamo detto nelle pagine precedenti, hanno bilanci in rosso e devono rinunciare a medici e infermieri. Così, se nel 2009 la sanità pubblica poteva permettersi il lusso di mandare in pensio- ne 108 mila sanitari e assumerne 111 mila, l’anno seguente cambia tutto. II saldo positivo è un ricordo. Nel 2010 escono appena 55 mila operatori e ne rientrano 50 mila. Ancora peggio l’annó successivo, il 2011: 40 mila in uscita, 34 mila assunti. E in pochi anni, il Ssn si gioca più di 20 mila persone capaci di assistere i malati (circa il 2 per cento dell’organico complessivo).
A soffrire di più sono Lazio e Campania dove spariscono più di tremila sanitari, la Sicilia (1.400), la Calabria, il Piemonte, la Liguria (1.000). Il 2013 sfugge ancora alle rilevazioni, ma l’aggravarsi della crisi di certo ha reso più ripida la china dell’impoverimento del servizio pubblico. Il tema scotta.Tanto che anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha dovuto prenderne atto, promettendo che il tema sarà affrontato e risolto nel prossimo Patto della salute, l’accordo tra lo Stato e le Regioni su come organizzare e finanziare il servizio sanitario nel prossimo triennio, promesso entro la primavera. Il caso di Roma non è infatti un’eccezione. Da mesi si susseguono chiusure di reparti e riduzioni di servizi per carenza di medici e infermieri, di proteste di operatori sanitarie e malati.
Così anche in quelle aree che fino a poco tempo fa erano considerate eccellenze. Per esempio in Lombardia, cominciano a vedersi innumerevoli crepe in quella che è stata raccontata sino a d oggi come una sanità d’eccellenza. I Pronto soccorso, ad esempio, soffrono di carenze di organico. Così, in molti ospedali (il San Paolo e il San Carlo a Milano, il Mellino Mellini di Chiari, tanto per fare qualche esempio) si corre ai ripari usando i medici dei reparti. E qualche volta può capitare (come avviene a Esine, nel bresciano) che tra i dottori richiamati ci sia anche qualcuno la cui specializzazione ha poco a che vedere con l’emergenza, per esempio un fisiatra.
Il dramma è che da nord a sud il numero insufficiente di medici e infermieri costringere molti reparti a impoverire i servizi quando non a chiudere. Al San Paolo di Milano, in estate diversi reparti hanno ridotto i posti letto: è l’unico modo per dare le ferie agli operatori. Però, al rientro delle vacanze, il deficit è diventato permanente per Neurologia e Nefrologia i cui posti letto sono stati più che dimezzati. Se ti sposti di quakhe centinaio di chilometri, in Piemonte, le cose vanno anche peggio. La regione è infatti tra quelle passate attraverso la dieta dimagrante dei piani di rientro, con chiusure di ospedali e scomparsa di letti per imalati.Sembrerehbe la situazione ideale per ricollocare al meglio il personale. Ma non è così. «Negli ultimi due anni il Piemonte ha perso duemila medici e altrettanti andranno via nei prossimi due anni», dice il segretario regionale del sindacato medico Anaao Assomed Gabriele Gallone. I nosocomi rimasti si sono ritrovati quindi costretti a gestire un flusso di pazienti aumentato a causa della chiusura di diverse strutture e per di più senza il personale sufficiente.
Così, si dà priorità alle urgenze e tutto ciò che può essere procrastinato si mette in lista. L’attesa per la chirurgia oncologica del seno nella regione, ad esempio, è passata dai 20,4 giorni del 2011 ai 36 di oggi. Con picchi di tre mesi all’azienda ospedaliera Città della Salute – Molinette secondo un’indagine del gruppo consiliare regionale del Partito democratico. Ma per tutti gli interventi e in tutto il Piemonte le liste di attesa si allungano. Secondo il documento del Pd, all’Ospedale di Mondovì i pazienti devono aspettare 138 giorni per la sostituzione totale dell’anca, al Maggiore della Carità di Novara 166 per un intervento di sostituzione totale del ginocchio, al Mauriziano di Torino addirittura 843 giorni per l’asportazione delle emorroidi. E proprio un infermiere del Mauriziano, Roberto Amerio, ha piantato una tenda davanti all’ingresso delle Molinette e portato avanti uno sciopero della fame. Se gli chiedi cosa significhi essere a corto di personale in un’ospedale risponde: «Significa avere i tempi contingentati, non avere un attimo per fare le cose meglio». Non è dappertutto così. Molte strutture continuano ad andare avanti con difficoltà tollerabili. «Sa qual è il problema del blocco del turnover? Che produce difficoltà in maniera casuale», dice Antonio Correra che dirige Pediatria generale e neonatologia del SS. Annunziata di Napoli. Ad esempio: i reparti con personale più giovane soffrono meno del blocco delle assunzioni perché sono immuni dai pensionamenti.
Il caso non è stato invece propizio con l’ospedale Cardarelli di Napoli, dove negli ultimi 3 anni il personale si è ridotto di circa 850 unità, passando da 3.200 a 2.400. «Mancano medici del pronto soccorso, pneumologi, neonatologi, cardiologi, gastroenterologi. E l’elenco potrebbe continuare», dice il coordinatore provinciale Anaao Assomed Franco Verde. «Qualche mese fa ho chiesto al prefetto la chiusura della Terapia intensiva neonata-le», racconta Verde. «Il personale era insufficiente a garantire la sicurezza dei piccoli pazienti. Per ora si è trovata una soluzione tampone». Altri reparti invece hanno chiuso (per esempio, la Pediatria) insieme a diversi piccoli ambulatori come quello di Gastroenterologia. Così va la sanità quando le esigenze di bilancio hanno la meglio su quelle di salute.
L’Espresso – 17 gennaio 2014