È una vicenda paradossale questa del braccio di ferro tra il premier, Matteo Renzi, e la sinistra pd sul Jobs act, il disegno di legge delega sul lavoro. Che, oltretutto, si è già vista quando il provvedimento è passato all’esame del Senato. Ora, appunto, si ripropone, più o meno negli stessi termini, alla Camera.
Tutto ruota intorno al diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare senza giusta causa. Una fattispecie molto importante, certamente più numerosa di quella dei licenziamenti per motivi economici (anche perché qui le aziende possono ricorrere ai licenziamenti collettivi), anche se i numeri non si conoscono perché non c’è un codice che identifichi le diverse cause di licenziamento, e che spesso si risolve con il giudice che dà ragione al lavoratore, disponendo il reintegro.
L’apertura
Il Jobs act prevede, secondo il testo approvato in Consiglio dei ministri, solo l’introduzione, per le nuove assunzioni, del «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti». Nulla si dice sulla disciplina dei licenziamenti. Ma poiché Renzi aveva annunciato che con i decreti attuativi della delega il diritto al reintegro sarebbe rimasto solo sui licenziamenti discriminatori mentre su tutti gli altri ci sarebbe stato un indennizzo economico crescente con l’anzianità di servizio, si scatenò una bagarre nel partito e con la Cgil finché, nella direzione del Pd del 29 settembre, Renzi fece approvare a larghissima maggioranza un ordine del giorno col quale riuscì a spaccare la sinistra facendo qualche concessione alle loro richieste. In particolare, sui licenziamenti il testo afferma: «Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie».
Minoranza divisa
In pratica, rispetto a quanto già previsto dalla riforma Fornero di due anni fa, che già assegna al giudice il potere di valutare se al lavoratore spetti il reintegro o l’indennizzo, si prevede una puntualizzazione dei casi in modo da limitare la discrezionalità e in definitiva i casi di reintegro. Su questa proposta la sinistra si spaccò, appunto. Alcuni, come Roberto Speranza e Guglielmo Epifani, si astennero. Matteo Orfini si schierò addirittura a favore.
Dopo il 29 settembre tutti si aspettavano che il dispositivo approvato fosse tradotto in un emendamento alla delega. Ma non fu così. L’opposizione del presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd), e la volontà di Renzi di chiudere subito la discussione portarono a un’approvazione del testo senza modifiche, col voto di fiducia.
Il nodo alla Camera
Adesso alla Camera si ricomincia. E la vicenda è appunto paradossale sia che la si guardi dalla prospettiva della sinistra interna sia che la si osservi da Palazzo Chigi. La sinistra, infatti, reclama oggi l’inserimento nel testo del dispositivo approvato il 29 settembre e che allora giudicava assolutamente insufficiente. Renzi, d’altra parte, continua a non volerlo fare, nonostante sia stato lui a proporre allora, attraverso il responsabile economico del partito, Filippo Taddei, il compromesso sui licenziamenti disciplinari.
L’impressione è che il premier abbia ottenuto il successo di spaccare la sinistra pd, ma che poi i contenuti dell’ordine del giorno siano diventati per lui ingombranti, nella misura in cui potrebbero autorizzare, soprattutto da parte dei mercati e delle istituzioni internazionali, la lettura di un cedimento rispetto all’obiettivo iniziale della riforma di semplificare i licenziamenti.
Gli opposti paradossi
Non che Renzi non sia convinto che mantenere il diritto al reintegro sui licenziamenti disciplinari palesemente ingiusti non sia doveroso, ma non è assolutamente disposto a far sì che questo appaia un cedimento alle richieste della sinistra e della Fiom. Insomma: una cosa che ha proposto lui non può diventare il cavallo di battaglia dei suoi oppositori. I mediatori si stanno dando da fare. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, esponente della sinistra pd, dice che il recepimento del «compromesso votato dalla direzione potrebbe diventare un punto di unificazione». Ma Renzi, piuttosto che dar corso agli opposti paradossi, è tentato di chiudere la partita anche alla Camera col voto di fiducia.
Enrico Marro – Corriere della Sera – 4 novembre 2014