Mattia Feltri. Secondo una contabilità di stampo notarile, risulta che nei primi nove mesi di legislatura sono state approvate quattro leggi per iniziativa del Parlamento. Non pochissime, valutata la produzione recente. Ma pochissime in assoluto e ancora meno se si va a vedere di che si tratta.
Prima legge: istituzione di una commissione antimafia. Seconda legge: istituzione di una commissione sulle attività criminali connesse al ciclo dei rifiuti. Terza legge: ratifica del trattato di Istanbul sulla violenza nei confronti delle donne. Quarta legge: ratifica del trattato delle Nazioni unite sul commercio delle armi. Dunque, due provvedimenti interni al palazzo e due prese d’atto di testi scritti altrove. Nient’altro, secondo la tradizione recente e consolidata secondo cui in aula non si fa che mettere il timbro sull’opera del Consiglio dei ministri. Le altre diciotto leggi approvate appartengono infatti all’esecutivo: oltre alla legge di stabilità e a qualche correzione di conti, sono tutti decreti convertiti, come si dice in gergo. I decreti sono leggi scritte dal governo, immediatamente esecutive e che però, per ottenere uno status definitivo, debbono essere approvate entro sessanta giorni. Li ricorderete: il decreto del fare, il decreto svuotacarceri, il decreti anti-femminicidio, il decreto Ilva, il decreto salva pubblica amministrazione, il decreto cultura e così via.
È dal novembre del 2011, cioè da quando Silvio Berlusconi lasciò palazzo Chigi a Mario Monti, e all’inaugurazione dell’età delle larghe intese, che i parlamentari, liberati dalla guerra politica quotidiana, dovrebbero occuparsi di mettere insieme qualche leggina utile alla vita di tutti i giorni. Si era partiti, in quel novembre 2011, con l’idea che c’era tempo di fare un intervento ciccioso – altro che leggine – e cioè le riforme istituzionali e la estenuante legge elettorale di cui si è in attesa da sempre. È dovuto arrivare un extraparlamentare, e cioè Matteo Renzi, per mettere in movimento qualcosa, poiché si era ancora fermi alle decine di proposte inconciliabili residenti in commissione, al lavoro non frenetico dei saggi, alle dotte e inconcludenti discussioni. A Montecitorio, come a Palazzo Madama, si giustificano col blocco imposto proprio da Enrico Letta e dai suoi, che comprende anche quindici fiducie oltre al lavoro sui decreti. Ecco che cosa ci ha raccontato ieri il presidente di una commissione della Camera che, per il suo ruolo, esige l’anonimato: «In commissione arrivano testi che dobbiamo accettare per come sono. Molti propongono emendamenti, ne propongono anche troppi, ma tanto dal governo ci dicono di eliminarli e noi, per via della crisi, della stabilità eccetera, li eliminiamo. Però tutti i disegni di legge dei parlamentari vanno in coda».
È anche vero che di tempo se ne perde molto. Le snervanti e inutili giornate destinate alla sfiducia individuale – stavolta per i ministri Angelino Alfano e Annamaria Cancellieri – sono bandierine piantate su un terreno che, si sa, non verrà mai conquistato. L’ostruzionismo, di cui i Cinque Stelle sono diventati discreti utilizzatori, è una pratica sacra, ultimamente stroncata brutalmente per ragioni di Stato; pratica sacra ma anche abusata e quindi sterile. Ancora il presidente di commissione di prima: «Le poche volte in cui riusciamo a prendere in mano testi che non arrivano dal governo, la tendenza è fratricida: a un gruppo interessa soprattutto sgambettare l’altro». Se si butta il naso nell’elenco delle centinaia di disegni di legge depositati – una roba da capogiro – si trovano proposte di istituzione del parco nazionale del Matese e nuove discipline per i musei del mare insieme con idee sulle pene alternative al carcere. Nonostante lo scenario, succede persino che una norma qua e là venga approvata in un ramo del Parlamento, per esempio quella di riforma della diffamazione a mezzo stampa convalidata a Montecitorio. Ora giace da qualche parte in Senato, a togliere i già scarsi argomenti ai sostenitori del bicameralismo perfetto. Il quadretto illustra quanto sia necessaria la revisione dei regolamenti parlamentari, l’abolizione del bicameralismo, la semplificazione della geografia assembleare, dove gruppi e partiti sono esorbitanti. Poi, dimenticato da tutti, servirebbe un aggiornamento dei poteri del premier.
La Stampa – 29 gennaio 2014