Alla Triennale di Milano si inaugura oggi “Arts&Foods” la grande mostra curata da Germano Celant in occasione dell’Expo. Dai coltelli dei cannibali alle installazioni di Fischer un percorso tra i rituali dell’alimentazione dal 1851 ad oggi
Rocco Moliterni. «Sia laudato il nome di Albina in tutte le sante cucine del Paradiso. Questo piatto di uova è un meraviglioso capolavoro» così Gabriele d’Annunzio scriveva in una lettera alla sua cuoca che campeggia dietro la Zambracca, la scrivania-studio-tavolo del Vate collocata da Germano Celant a metà della prima sezione di «Arts&Foods». L’imponente mostra curata dal padre dell’Arte Povera (non poche polemiche ci furono l’anno scorso sul suo costo e sul compenso del curatore) si apre oggi alla Triennale come «primo padiglione di Expo Milano 2015».
L’esposizione vuol essere «un’indagine sul rapporto tra le arti e i diversi rituali del cibo nel mondo» dal 1851 ad oggi e offrire «una lettura storica dell’influenza estetica e funzionale dell’alimentazione sui linguaggi della creatività, un percorso in cui l’arte in tutte le sue forme si incontra con i temi della nutrizione». Non basta una visita al cantiere ancora aperto con lavori sovente senza didascalie per dire se gli obiettivi siano centrati pienamente oppure no. Certo il dispiegamento di 2000 opere d’arte visiva, architettura, design, scultura, arti applicate, fotografia, cinema è spettacolare. Si direbbe che Celant abbia realizzato la sua Divina Commedia sul cibo, in tre sezioni, che grosso modo corrispondono anche alle diverse percezioni che del cibo abbiamo avuto dal 1851 ad oggi.
La cuoca del Vate
D’Annunzio citava il Paradiso nella lettera alla sua cuoca e si può anche dire che la prima sezione (nella Curva della Triennale) sia quella, dal 1851 alla fine della seconda guerra mondiale, della visione «paradisiaca» del cibo. Il cibo agognato da chi non ce l’ha e messo in scena dalle classi borghesi in ascesa. La mostra si apre con la cucina di una famiglia povera accanto a quella di una famiglia borghese dell’800. In questa prima sezione abbondano gli ambienti e tra cucine art deco, futuriste, cubiste si rimane incantati.
Il macellaio
Ci sono anche le case d’avanguardia progettate da Jean Prouvé e quelle firmate da Le Corbusier, ma non mancano la ricostruzione di una bottega di macellaio, una cucina da campo militare e anche un caffè della Belle Epoque. Molti qui i quadri dell’800 e del ’900 non solo italiano, da Ensor a De Nittis, da Léger a Braque, da Kirchner a Morandi, ci sono ceramiche di Picasso e Fontana, molte le collezioni di utensili, dai coltelli (anche quelli usati dai cannibali) ai frullatori. A ricordarci la nascita o l’affermarsi ben prima di Masterchef della figura sociale del cuoco c’è Le chef Père Paul di Monetdel 1882 accanto allo Chef de l’Hotel Chatam di Parigi realizzato da William Orpen nel 1921.
La seconda sezione, nella Galleria Aulenti, possiamo immaginarla (grazie anche ai colori acidi delle pareti, in primis il giallo, scelti da Italo Rota che firma l’intero allestimento), come una sorta di Purgatorio.
La pop-art di Warhol
Qui c’è?il trionfo della Pop Art di Warhol, Wasselmann, Lichtenstein, Oldenburg. Ci sono tanto un Eat luminoso di Richard Indiana, quanto un geniale omaggio di George Segal a Cézanne, John Cage che raccoglie funghi, le scatolette di Beuys, le cozze di Marcel Broodthaers. Il cibo ormai è un prodotto industriale e nella sua serialità inizia a mettere un po’ di inquietudine (magari dà anche qualche problema fisico come ricorda la pubblicità del digestivo Antonetto firmata da Armando Testa). Certo almeno in Italia si passa in pochi anni dal ragazzo che porta il pane a Matera (la splendida foto Anni 50 di Nino Migliori) al boom dei supermercati e dei carrelli riempiti di ogni ben di Dio. Fa tenerezza una foto Anni 70 di Ghirri dove nella Trattoria da Salso, in qualche posto in Emilia, c’è un pranzo fisso a mille lire e gli spaghetti al pomodoro sono segnati in carta sotto le «minestre» .
L’ultima sezione è quella dove il cibo nel mondo a cavallo del terzo millennio si è trasformato, per molti artisti, quasi in un inferno. Certo c’è ancora spazio per i giochi surreali di De Dominicis con la sua Mozzarella in carrozza e i sogni spiazzanti di Sandy Skoglund, ma ben presto si passa agli incubi, che siano le foto di ragazze obese (di Jen Davis) o quelle di bambini africani denutriti (di McCullin). Ci sono le modelle vagamente anoressiche di Vanessa Beecroft (la celebre performance al Castello di Rivoli) e la catena di montaggio di una fabbrica di «polli». La donna nei confronti del cibo non ha più la gioia della massaia Anni 60 come ci dicono gli Home Works di Miles Aldridge. E inquietanti sono sia la Casa di
pane di Urs Fischer, dove le favole non sembrano destinate a buon fine, quanto il gigantesco hamburger di Tom Friedman.
Senza profumi
Non rassicuranti sono gli hot dog antropomorfizzati di Oppenheim così come la donna che torna dalla spesa di Ron Mueck. Forse solo nei Paesi orientali il cibo è ancora dolce nostalgia come ci ricordano le installazioni di Gupta, ma già la rappresentazione che ne fa Tiravanjia non ti fa star bene. Altrettanto si può dire di Shonibare e dei grandi quadri di Jeff Koons. Per non parlare dei fratelli Chapman.
Per chi ama oltre l’arte anche il cibo si avverte in questa mostra ricchissima un’assenza: sono i profumi e gli odori sui quali Celant l’anno scorso in sede di presentazione aveva annunciato un percorso ad hoc. Sembrano una magra consolazione la Personal Cloaca di Wim Delvoye, che a regime dovrebbe odorare realisticamente o il profumo del pane o del caffè che emaneranno dalle installazioni di Penone e di Kounellis.
La Stampa – 8 aprile 2015