Aliquote ed età d’uscita, le disparità. Architetti, avvocati e psicologi pagano circa un terzo del 33% versato dai dipendenti. E i parlamentari possono fermarsi a quota 8,6 per cento
Il dossier «privilegi pensionistici» è sui tavoli del governo. Saranno il presidente del Consiglio, Mario Monti, e il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a decidere se e come procedere. Certo è che se il premier volesse dar seguito alla promessa di provvedimenti nel segno dell’«equità», ci sarebbe molto da fare. Perché è vero che l’armonizzazione delle regole ha fatto un decisivo passo avanti con la riforma Dini del 1995, ma neppure quel grande riordino riuscì, per esempio, a colpire i privilegi della casta dei politici oppure a ricondurre a un maggiore equilibrio alcune casse professionali. Sta di fatto che ancora oggi sopravvive una giungla delle aliquote contributive, con i lavoratori dipendenti che pagano il 33% (due terzi a carico dell’azienda) e i deputati e senatori l’8,6%, passando per artigiani e commercianti con il 20-21% e alcune categorie di professionisti con il 10-13% (psicologi, architetti, avvocati). E restano in vigore età di pensionamento più basse della norma (65 anni per la vecchiaia e 60-61 anni per l’anzianità) a favore di alcune categorie, dalle Forze armate ai piloti, dai parlamentari ai conducenti di autobus, metropolitane e treni.
La casta
Il Senato ha appena deciso di eliminare i «vitalizi», si chiamano così le pensioni dei parlamentari, ma solo a partire dalla prossima legislatura. Quelli in servizio ora, come ha scritto sul Corriere Sergio Rizzo, se hanno più di 4 legislature alle spalle, potranno ancora andare in pensione a qualsiasi età mentre nulla è previsto a carico di quei parlamentari tipo Giuseppe Gambale, andato in pensione nel 2006 a 42 anni con 8.455 euro lordi al mese e Alfonso Pecoraro Scanio che nel 2008 ha preso il vitalizio a 49 anni. Ed è appena il caso di aggiungere che i vitalizi sono cumulabili con qualsiasi altro reddito, compresi eventuali vitalizi da consigliere regionale (qui si entra in una giungla dove è ancora possibile, come alla Regione Lazio, prendere l’assegno a 50 anni). Alla Camera invece, per ora, hanno solo approvato un ordine del giorno che prevede il passaggio al calcolo contributivo. Ma anche questo governo, come i precedenti, pare che non possa far nulla perché Camera e Senato hanno autonomia decisionale.
Ancora pensioni baby
E che dire dei dipendenti della Regione Sicilia che ancora possono andare in pensione anticipata a 45 anni, basta che abbiano un parente infermo da assistere? Anche in questo caso, è la Regione, che oltretutto è a statuto speciale, che comanda. Sembra che voglia mettere fine a questo scandalo, ma il solo annuncio ha scatenato una fuga dal lavoro di 45-50enni. Insomma: le baby pensioni non sono del tutto cessate nel 1992, quando la riforma Amato mise fine al privilegio dei dipendenti pubblici che potevano andare in pensione dopo 19 anni sei mesi e un giorno (addirittura 14 anni sei mesi e un giorno se donne con figli). Un regalo che ancora paghiamo, visto che ci trasciniamo più di mezzo milione di pensioni liquidate a lavoratori con meno di 50 anni d’età: 535.752 per la precisione, che costano allo Stato circa 9,5 miliardi di euro l’anno. In questo caso il governo potrebbe intervenire con un contributo di solidarietà (ipotesi che i tecnici avevano studiato già sotto il governo Berlusconi).
Le età di favore
Oltre alle differenze già viste, restano quelle dei fondi speciali Inps: gli ex fondi Trasporti, Elettrici, Telefonici, Inpdai (dirigenti d’azienda) confluiti nel Fondo lavoratori dipendenti e i fondi Volo, Ferrovie, Clero ed ex Ipost (postelegrafonici). Il «personale viaggiante» dei Trasporti può andare in pensione di vecchiaia a 60 anni (55 le donne). Stessa cosa per gli iscritti al Fondo Volo, che possono anche andare in pensione d’anzianità con un anticipo fino a 5 anni sulle regole generali. I macchinisti delle ferrovie possono lasciare a 58 anni con 25 di servizio, i controllori a 60 anni.
I contributi
I privilegi non sono solo quelli che nascono da regimi di favore, ma si nascondono anche nella giungla delle aliquote contributive, sottolinea Domenico Proietti, segretario confederale della Uil ed esperto di previdenza. La questione riguarda i lavoratori più anziani, che vanno in pensione col sistema di calcolo retributivo. Che frutta una pensione in rapporto alla retribuzione appunto: per capirci, il 2% per ogni anno di lavoro, l’80% dello stipendio con 40 anni di contributi. Ora è evidente che se uno paga il 33% e un altro il 20% o anche meno, ma alla fine tutti e due prendono il 2% della retribuzione per ogni anno di versamento, il secondo lavoratore riceve un “regalo” rispetto al primo. Ecco perché il ministro del Lavoro vorrebbe uniformare il più possibile le aliquote. E non solo per ragioni di equità ma anche per eliminare gli effetti distorsivi delle aliquote agevolate. Si ritiene infatti che la diffusione dei contratti precari di collaborazione sia figlia anche del fatto che per le aziende sono convenienti, perché su questi si pagano contributi molto più bassi del 33% (solo recentemente l’aliquota è stata portata al 27%).
Ci sono infine una ventina di agevolazioni contributive concesse da leggi diverse a favore di: contratti di solidarietà; formazione; inserimento; reinserimento; apprendistato; assunzione di lavoratori in mobilità; domestici; dipendenti agricoli e coltivatori diretti delle zone svantaggiate; artigiani e commercianti coadiuvanti con meno di 21 anni; cassintegrati; svantaggiati; pescatori autonomi. Sono tutte giustificate?
Corriere.it – 29 novembre 2011