Roberto Giovannini. Per l’acqua si combatte: finora sono documentati dalla Banca Mondiale ben 507 conflitti legati al controllo delle risorse idriche. Tra tanti, l’esempio della guerra civile in Siria, dove secondo molti esperti la sequenza di molti anni di siccità ha certamente contribuito allo scatenarsi della crisi. E di questo passo, in un pianeta sovrappopolato e il cui equilibrio climatico sta cambiando in una direzione sfavorevole, c’è il rischio che per la sempre più strategica acqua si combatterà e si morirà. Entro il 2030 – lo dicono i dati delle Nazioni Unite – addirittura il 47% della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. E perfino la Cia, in un suo documento, ha affermato che «le questioni idriche sono principalmente una questione di stabilità mondiale».
Anche se il 70 per cento del pianeta Terra è coperto dall’acqua – di cui oggi ricorre la Giornata mondiale -, di questa risorsa fondamentale per la vita soltanto una parte piccolissima, lo 0,5 per cento, è acqua dolce e potenzialmente utilizzabile per gli umani e per i loro miliardi di animali da allevamento. Per metterci le mani sopra si combatte militarmente, ma anche economicamente: così come da tempo avviene per i terreni agricoli e per le risorse minerarie, già oggi Stati e aziende sono al lavoro per accaparrarsi l’acqua. Sottraendola ad altri Stati o – cosa molto più facile – a comunità locali colpevoli di vivere vicino a una risorsa di valore immenso. Dopo il land grabbing, dunque, è già suonata l’ora del water grabbing, un neologismo che probabilmente diventerà in futuro di uso sempre più comune.
È di questo fenomeno che parla Water grabbing, le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (EMI editore), un libro firmato da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. Un fenomeno aggravato dalla crescente domanda di acqua per cibi e prodotti e dalla contemporanea diminuzione della disponibilità provocata dal cambiamento climatico, spiega Bompan, giornalista e collaboratore de La Stampa-Tuttogreen. «Vogliamo sempre più acqua mentre il bicchiere è sempre più vuoto – dice – e le mani che lo reggono si fanno sempre più avide».
Già oggi quasi 2 miliardi di persone in tutto il mondo vivono senza acqua potabile sicura, «nonostante ormai da otto anni l’Onu abbia dichiarato il diritto umano all’acqua come primario e indiscutibile», afferma Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory. Una situazione che rischia di peggiorare, visto che non ci sono norme internazionali in grado di mettere la museruola agli appetiti idrici di Stati e multinazionali. Appetiti che qualche benemerita iniziativa di ripubblicizzazione di una risorsa che dovrebbe essere di tutti non riescono a frenare. Mentre paradossalmente si spreca in modo colossale, tra infrastrutture inadeguate e sistemi agricoli e urbani dall’impatto non più sostenibile. E il preziosissimo liquido viene utilizzato senza troppi pensieri per il fracking di gas e petrolio, che spesso porta a un inquinamento delle falde, o per la produzione di energia elettrica.
Il prezzo del water grabbing, intanto, lo pagano i più deboli. Il libro racconta le conseguenze umane della costruzioni di monumentali dighe, come quella delle Tre Gole in Cina, che ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone, o quella Gibe III in Etiopia, che ha sconvolto la vita di 400 mila poverissimi Oromo. O indirettamente: sono i più poveri ad essere travolti dai conflitti militari e dalle tensioni politiche. In Siria, ma anche tra India e Cina per il controllo del fiume Brahmaputra, tra Autorità palestinese e governo israeliano, tra Cina, Vietnam, Laos e Cambogia per il controllo del Mekong.
E l’Italia? I numeri dicono che le riserve idriche si sono dimezzate in appena sette anni. Siamo davvero convinti di non essere coinvolti?
La Stampa – 22 marzo 2018