Chiara Saraceno. La proposta del presidente dell’Inps, Tito Boeri, di reintrodurre flessibilità nell’età alla pensione, ora presa in considerazione dal governo, va accolta con favore. Restituisce gradi di libertà nella scelta di vita delle persone su come bilanciare reddito e disponibilità di tempo e, a differenza delle vecchie pensioni di anzianità, non mette totalmente a carico della collettività il costo dell’aumento degli anni in cui si fruisce della pensione scegliendo di andarci prima.
Ai fini dell’equità, tuttavia, manca un tassello importante: il riconoscimento, a fini di contributi figurativi, del lavoro di cura prestato in modo gratuito nei confronti di figli piccoli, di famigliari disabili, di anziani fragili o non autosufficienti. Riguarda nella stragrande maggioranza dei casi le donne (anche se non tutte). Ma può riguardare anche uomini. Se ne è dibattuto già ai tempi della discussione sull’innalzamento dell’età pensionabile per le donne, quando al suo posto venne promesso solennemente di investire i risparmi che sarebbero derivati da tale innalzamento in servizi alla persona e misure di conciliazione lavoro-famiglia. Come è noto, alla fine non se ne fece nulla (e i servizi vennero ridotti o il loro costo aumentato).
La questione è stata totalmente censurata quando l’allora ministra Elsa Fornero introdusse in modo sperimentale (dovrebbe scadere a fine anno) l’opzione donna, ovvero la possibilità, limitata alle sole donne che avessero raggiunto i 35 anni di contributi e 57 anni di età, di andare in pensione prima di aver raggiunto i nuovi limiti di età, ma rinunciando al più vantaggioso regime retributivo (cui questa coorte di età avrebbe ancora diritto in tutto o in parte) a favore del meno favorevole regime contributivo, con decurtazioni dell’ammontare pensionistico che possono andare dal 25 al 40 per cento.
Molte, se non la maggior parte, di queste donne hanno in passato subito penalizzazioni reddituali e di carriera per il fatto di essersi dedicate, oltre che al lavoro remunerato, a mettere al mondo e tirare su figli. Sono inoltre motivate a lasciare presto il lavoro a costo di pesanti penalizzazioni reddituali da altre richieste di cura che provengono dalla rete famigliare. Dalle figlie e nuore che contano sulla loro disponibilità come nonne per poter conciliare famiglia e lavoro in una situazione in cui gli orari e i calendari dei servizi per l’infanzia e scolastici sembrano continuare a presumere che le madri non lavorano mentre i datori di lavoro si aspettano in misura crescente flessibilità e disponibilità. Da genitori e suoceri grandi anziani, la cui più o meno improvvisa fragilità trova pochi sostegni al di fuori della famiglia, o dei servizi a pagamento per chi se li può permettere.
Più che di scelte vere e proprie, si tratta di necessità sperimentate all’interno della rete famigliare, soprattutto là dove le risorse economiche sono più scarse. Ci sarà anche qualche signora che decide di fruire dell’opzione donna perché può permetterselo, avendo un marito ricco (e sperando che il loro rapporto tenga). Ma per la maggior parte si tratta, appunto, di mancanza di alternative, ove le donne pagano due volte: perdendo ricchezza pensionistica e continuando a farsi carico di un lavoro di cura che in altri Paesi europei è meglio distribuito tra famiglia e collettività.
Sarebbe quindi opportuno che nella discussione sulla flessibilità nell’età alla pensione, accanto al calcolo sulle penalizzazioni legate all’anticipo, si facessero anche dei calcoli relativi a premialità (ovvero contributi figurativi) legate alla effettuazione di lavoro di cura intensivo. Qualche cosa esiste già, ma è pochissimo: dalla riforma Dini in poi le lavoratrici che hanno un figlio si vedono riconoscere tre mensilità di contributi figurativi (oltre a quelli versati durante il periodo di congedo), fino a un massimo di un anno nel caso abbiano quattro figli, ovvero quanto è riconosciuto in Germania per un figlio solo. E non vi è nessun riconoscimento per la cura di famigliari gravemente invalidi o anziani non autosufficienti. Questo riconoscimento compenserebbe parzialmente la perdita economica legata all’uscita anticipata esclusivamente per chi ha effettuato davvero lavoro di cura famigliare, donna o uomo che sia.
Ovviamente, la cosa non dovrebbe essere in alternativa ad un investimento nei servizi, anche perché non è sempre vero che l’esclusiva cura famigliare sia la migliore, o la più adatta. Ma è una misura tanto più urgente e in direzione dell’equità in un contesto, quale quello italiano, in cui si continua a scaricare sulla famiglia e sulle donne in essa gran parte del lavoro di cura, specie per gli anziani fragili o non autosufficienti.
Sarebbe anche un modo di riconoscere che, accanto alla differenza, che va riconosciuta a fini pensionistici, tra lavori usuranti e non usuranti, c’è il dato di un’ampia quota di lavoratori, anzi lavoratrici, che ha una lunga storia di doppio lavoro, di cui uno non remunerato ma a beneficio della collettività. Alfano e i suoi, che stanno lanciando il loro family act potrebbero utilmente pensarci, anche per evitare che politiche del lavoro, delle pensioni, per le famiglie vadano ciascuna per conto proprio, laddove nella esperienza concreta degli individui e delle famiglie i nessi sono visibilissimi.
Repubblica – 12 agosto 2015