Non se ne parla e col bilancio pronto ad approdare in consiglio certo è piuttosto strano. Perché la vicenda di Sifa, società consortile per azioni incaricata nel lontano 2005 di realizzare e far funzionare l’impianto integrato di Fusina, a Venezia, rischia di sconquassare i conti della Regione a tal punto, da metterne a rischio la tenuta e costringere all’insonnia non solo il governatore Luca Zaia, ma anche il suo vice con delega alle Finanze Gianluca Forcolin e l’assessore alla Riconversione di Porto Marghera Roberto Marcato.
Una nota informativa interna a Palazzo Balbi, redatta dai tecnici che stanno seguendo il delicato dossier, parla di «un’esposizione potenziale significativa» per l’ente, quantificata, «a valori non attualizzati», in 325 milioni in 25 anni. «Una situazione imbarazzante» la definisce il presidente di Sifa, Sergio Trevisanato. Ma forse il termine più appropriato sarebbe «esplosiva».
La vicenda è complessa e procedere con ordine aiuta a capire. Siamo nel 2005, governatore Giancarlo Galan, assessore con delega alle bonifiche e alla riconversione di Porto Marghera Renato Chisso. Sul tavolo c’è l’annosa questione dell’ex polo chimico, caduto in disgrazia e afflitto da un gravissimo inquinamento. La Regione, nell’ambito del «Piano Direttore 2000», decide di dar vita al Progetto Integrato Fusina (il Pif) «un’opera di carattere strategico » e «di alto profilo ingegneristico» i cui obiettivi sono essenzialmente tre: la riduzione dell’inquinamento generato sul bacino scolante nella laguna, attraverso una drastica riduzione degli scarichi; la bonifica dei siti contaminati; l’ottimizzazione della gestione delle risorse idriche grazie al riciclo dell’acqua usata per fini industriali. Il motore del Pif, la sua infrastruttura di base, è «l’impianto integrato di trattamento polifunzionale», una piattaforma che dovrebbe costituire un «filtro artificiale» a difesa della laguna e, funzionando come una sorta di grande macchina per la dialisi, trasformare col tempo Porto Marghera in «un’area ecologicamente attrezzata».
Secondo la prassi più in voga all’epoca, la costruzione e la gestione del Pif vengono affidate in project financing alla Sifa Scpa, una società consortile costituita ad hoc in cui siedono, tra gli altri, Veritas (Comune di Venezia) con il 40%, Veneto Acque (Regione) col 20% e Mantovani spa, allora guidata da Piergiorgio Baita, con un altro 20%. Il controllo dunque è pubblico ma nel giro di qualche anno gli equilibri cambiano, Veneto Acque si ritira e resta all’8,6%, Veritas scende al 30% mentre Mantovani sale al 47% ed entrano nella compagine azionaria, con pacchetti tra l’1 e il 4%, altre società tra cui Veneto Tlc e Alles, una srl ed una spa i cui consigli di amministrazione erano presieduti dall’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo. Com’è noto Galan, Chisso, Baita e Minutillo sono poi stati a vario titolo coinvolti nell’inchiesta sulle tangenti del Mose. Dal 2013 a presiedere Sifa «con un ruolo di garanzia» è Sergio Trevisanato, ex presidente dell’Isfol ma soprattutto ex segretario regionale alla Cultura, all’Istruzione, al Lavoro e alla Formazione durante i tre mandati di Galan.
La concessione del project prevede la realizzazione da parte di Sifa dell’impianto e delle relative infrastrutture, per una spesa di oltre 194 milioni (ma con un contributo della Regione di 93 milioni; finora sono stati spesi 178 milioni), investimento di cui Sifa dovrebbe poi rientrare, con successivi soddisfacenti guadagni, grazie alla gestione del Pif dal 2010, data prevista per il completamento delle opere, al 2034. Il business sta nella depurazione dei fanghi e dei reflui industriali (il T.i.r., il tasso di rendimento, è calcolato al 12,1%) ma come già in altri project firmati da Galan e da Chisso, il rischio d’impresa non è interamente a carico del privato perché la Regione si impegna a «garantire» l’operazione promettendo da un lato il conferimento di 2 milioni di metri cubi di fanghi nella cassa di colmata di Mira, così da assicurare alla società un utile di 21 milioni, dall’altro che in caso di mancati introiti derivati dal calo del materiale inquinato da depurare ci avrebbe comunque pensato lei a ripianare la differenza, tolta un alea del 5%. Circostanza che puntualmente si realizza, mentre salta pure l’operazione a Mira, per via dell’opposizione del Comune. I conti di Sifa a questo punto non tengono più e la Regione decide nel 2008 di siglare un primo atto integrativo spostando l’obiettivo sul Vallone Moranzani e la cassa di colmata del Molo Sali, che dovrebbero garantire «analoga redditività» con un investimento di altri 121 milioni (53 dei quali sono contributi). Ma anche qui, va male. Siccome le aziende di Porto Marghera continuano a chiudere, di reflui e fanghi da depurare e stoccare ne arrivano sempre meno e lo scavo dei canali veneziani non basta a compensare la perdita, che coinvolge Sifa ma anche la Regione, cui erano destinati una parte degli incassi da reimpiegare nel recupero ambientale dell’area Moranzani-Malcontenta (Palazzo Balbi, insomma, ci rimette due volte: in proprio e come garante di Mantovani & co.). Come se non bastasse, c’è pure un intoppo con Terna, che doveva interrare un elettrodotto ma non lo fa, bloccando tutto.
Si ritorna al punto di partenza e il cerino in mano ce l’ha sempre la Regione che nel 2010, dieci giorni prima delle elezioni poi vinte da Zaia, chiude con Sifa un secondo atto integrativo in cui si rassegna alla fine del business dei fanghi e, per evitare che la società si avvalga delle clausole di garanzia, le propone di «individuare nuove marginalità dalle attività di produzione di acqua demineralizzata e dall’ottimizzazione dell’impianto di incenerimento Sg31» che viene acquistato da Sifa. La società investe altri 51 milioni (il contributo stavolta si abbassa a 2,3 milioni), chiedendo ai soci un aumento di capitale e chiudendo con Bnl e Unicredit un finanziamento di 80 milioni (il T.i.r. resta comunque al 10,8%), ma niente, neppure il «piano C» funziona: con la crisi crolla la richiesta di acqua demineralizzata da parte delle industrie e di fanghi da bruciare ce ne sono meno di prima, così che si blocca il revamping dell’inceneritore e i nuovi impianti per l’acqua neppure entrano in funzione.
E così si arriva all’oggi, con la società che torna a bussare al portone di Palazzo Balbi, lamentando un ammanco di 44 milioni (la società di revisione Ernst&Young si è pure rifiutata di certificare il bilancio 2014, chiuso a meno 9 milioni). Tre sono i possibili scenari. Il primo è quello di un terzo atto integrativo, già ritoccato in due diverse bozze, basato su nuovi canoni d’uso, l’emanazione di un regolamento di fognatura, l’allargamento del Moranzani al business dei rifiuti e magari pure un contributo una tantum della Regione di 18 milioni, in cambio del superamento delle clausole di garanzia. Il secondo è il recesso di Sifa e la risoluzione del contratto per inadempimento della Regione, che dovrebbe risarcire ai soci non meno di 120 milioni di euro tra investimenti e utili mancati (l’alternativa allo studio, in questo caso, è l’accollo del mutuo da 80 milioni con Bnl e Unicredit). La terza, la più pericolosa per i conti dell’ente, è la rigida applicazione delle clausole di garanzia messe a suo tempo nero su bianco da Chisso e Galan: 5,6 milioni all’anno (per 25 anni) per la linea acque, 6 milioni all’anno (per 25 anni) per il capitolo fanghi-inceneritore, oltre 35 milioni per il Moranzani. Totale a pagare, secondo le proiezioni dei tecnici di Palazzo Balbi, 325 milioni di qui al 2034. Insomma, comunque vada, ci sarà di che mettere mano al portafogli (dei veneti).
Trevisanato, che ha già spedito in Regione due richieste di pagamento per gli anni 2013 e 2014 per 11,3 milioni, da novembre chiede un incontro, senza ottenere risposta. L’ultimo appuntamento, fissato per il 20 di gennaio, è saltato 48 ore prima. «Non c’è la volontà di interloquire, mi pare evidente – dice –. Se entro il 31 marzo non definiremo la questione, procederò con le diffide e la richiesta di risoluzione del contratto per inadempimento. Perché sia chiaro, Sifa ha fatto fino in fondo la sua parte, la Regione no». E da Palazzo Balbi che dicono? L’ultimo atto ufficiale, una delibera di giunta, risale a dicembre 2014. Da allora, le carte non parlano più e forse è meglio così perché tutte quelle che parlano, ad oggi, parlano a favore di Sifa. Per evitare di ripetere l’errore, intanto è stata respinta la bozza del terzo atto integrativo messa a punto da Trevisanato, perché considerata inesatta ed incerta sull’andamento dei ricavi (tradotto: si rischia l’ennesimo buco nell’acqua). Nel frattempo Palazzo Balbi ha alzato la contraerea, mostrandosi pronto alla guerra con contestazioni sui collaudi e i ritardi nella consegna delle opere e la minaccia di penali da 18 milioni. A giorni l’assessore Marcato porterà in giunta un’informativa redatta dall’Avvocatura civica che, anche sulla base della recente legge di revisione dei project, chiederà la ricontrattazione della concessione per «eccessivo sbilanciamento a favore di Sifa», sulla scia di quanto già fatto dall’Usl 12 con l’ospedale dell’Angelo a Mestre. Ma la domanda resta sempre lì, sospesa: se non si trova l’accordo, alla fine chi paga? La Regione, questo sembra certo. La battaglia, semmai, è sul quanto. È il project garantito, bellezza.
Il Corriere del Veneto – 7 febbraio 2016