di Sergio Rizzo. Un uomo forzuto schiacciato da un pesante macigno che gli piega le spalle e una scritta intorno: “Licenziare dipendenti pubblici”. Avendo forse fiutato l’aria l’imprenditore veneto Sante Carraro, fiancheggiatore dei Forconi, era già pronto con il suo partito per le elezioni europee. Mandare a casa metà degli statali, colpevoli di succhiare il sangue al resto degli italiani: un programma semplice e diretto. Che non ha lasciato traccia. Forse perché quando si tratta di passare dalle parole ai fatti la prospettiva è leggermente diversa.
Le parole, appunto. In teoria, per esempio, i dipendenti pubblici possono essere anche mandati a casa: le regole sulla mobilità da qualche anno si applicano anche a loro. Ma solo in teoria: se nemmeno l’omicidio è causa per il licenziamento, figuriamoci l’esubero. La prova? Gli agenti di polizia condannati in via definitiva per la morte dello studente ferrarese Federico Aldrovandi, una volta scontata la blandissima pena inflitta dal tribunale, sono stati regolarmente reintegrati. Con tanto di standing ovation tributata loro dal colleghi del sindacato Sap. «Un disonore per migliaia di divise», ha fatto mettere a verbale il premier Matteo Renzi. Ma di più non ha potuto.
La verità è che nessun politico, almeno prima d’ora, ha mai seriamente pensato di poter licenziare i dipendenti pubblici. Del resto, non ci si inimica certo a cuor leggero tre milioni e mezzo di elettori e le rispettiva famiglie. A destra come a sinistra. Perfino il governo Renzi, che ha appena sfornato la più dura riforma della pubblica amministrazione dal secondo dopoguerra, annunciando la sepoltura delle Province si è premurato di tranquillizzare: «Nessuno perderà il posto».
Per non parlare dei sindacati. L’ultima volta che ha sentito pronunciare la frase «licenziamenti nel pubblico impiego», Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è esplosa: «Vogliono incendiare la prateria».
Comprensibile, forse. Ma solo ed esclusivamente per carità umana. Prendete il caso di Francesco De Lorenzo, ex ministro della Sanità condannato per Tangentopoli. Professore universitario a Napoli, viene sospeso quando cominciano i suoi guai giudiziari. Quindi reintegrato e poi nuovamente sospeso quando la condanna diventa definitiva. Scontata la pena, ecco schiudersi di nuovo le porte dell’Università. A un giornale che raccontava questa storia abbastanza singolare di inamovibilità perpetua, De Lorenzo mandò una lettera dove c’era scritto: «Gli autori ignorano la legge con la quale si chiarisce che se il reato non è commesso nell’esercizio della propria funzione, non c’è automatismo che si riverberi nelle decisioni di carattere disciplinare». Dunque il professore che ruba, ma non all’università, può continuare tranquillamente a insegnare: abbiamo capito bene?
Sembra incredibile, ma è così. Un dipendente del comune di Milano che si occupava di riscossione fu condannato nel 2001 per un grave reato patrimoniale. Nel frattempo, però, era diventato insegnante in una scuola pubblica: che non potè prendere nei suoi confronti alcun provvedimento, dato che «l’episodio risale a un’epoca in cui il soggetto non aveva alcun rapporto con l’amministrazione scolastica». E lo Stato ha continuato a pagargli lo stipendio.
Succede ai professori, ma succede anche ai bidelli. Le cronache sono piene, ahimè, di storie di collaboratori scolastici denunciati e condannati che poi tornano a lavorare. Magari non nella stessa scuola, ma in quella accanto. Il 3 aprile scorso un tribunale ha stabilito che un bidello riconosciuto colpevole di aver molestato una ragazzina di 13 anni «non potrà più lavorare a scuola». Significa che lo ritroveremo in qualche altro ufficio.
In un’inchiesta pubblicata qualche anno fa da «Panorama», Roberto Ormanni raccontava che nei ministeri risultavano in servizio 194 persone che avevano subito condanne definitive per gravi reati contro la pubblica amministrazione, come truffa, corruzione e peculato. Come mai? Perché le condanne blande provocano al massimo una sospensione di settimane o mesi. Poi tutto ritorna come prima. E se ha ragione il magistrato di Mani Pulite Pier Camillo Davigo, secondo cui il 98 per cento dei condannati se la cava con meno di due anni… Non è poi che vada molto meglio nelle amministrazioni locali. Sapete quanti hanno perso il posto delle centinaia dipendenti del Comune di Napoli che nel 2006 vennero pizzicati a gonfiarsi gli stipendi autocertificando di dover mantenere stuoli di parenti? Uno soltanto. Uno su 321.
Frequentissimi, inoltre, sono i casi di licenziamenti che si risolvono con una riassunzione. Per avere conferma, chiedere al geometra licenziato dall’Aler di Milano per tangenti e riassunto poco dopo dall’Aler di Brescia. Oppure al finanziere scoperto dai poliziotti mentre, in borghese, si faceva una canna. Cacciato dal corpo, è stato reintegrato dal Tar. La motivazione? Era vittima «di fumo passivo».
Il Corriere della Sera – 14 giugno 2014