Il dado è tratto. Sulla riforma del lavoro Renzi intende «andare dritto come un mulo». Riformando tutto lo Statuto dei lavoratori, compreso dunque l’articolo 18.
La strategia per superare le resistenze e i niet della minoranza del partito è mutuata dal «metodo» vincente con cui il segretario è riuscito a portare a casa (in prima lettura) la riforma elettorale e quella costituzionale. Un «metodo» che passa dal partito, anzi dalla supremazia politica del partito sui gruppi parlamentari. Non casualmente, visto che in Direzione i renziani sono la maggioranza mentre i gruppi – specie a Montecitorio – sono la ridotta delle truppe bersianian-dalemiane. Dunque si partirà con una Direzione ad hoc sul Job’s Act già stabilita per il 29 settembre. Quella sarà la sede dello scontro. «Facciamo la Direzione – spiega il premier ai suoi – e poi si decide. Il resto sono tutte chiacchiere, ipotesi, critiche che non mi preoccupano. Io non cedo di un millimetro. Nessuno pensi che su questo punto mi possa fermare».
L’occhio di Renzi è puntato sull’8 ottobre, quando a Milano si terrà la conferenza dei capi di Stato e di governo Ue sul lavoro, un appuntamento a cui intende presentarsi avendo portato a casa la prima lettura della legge delega in Senato. «Abbiamo gli occhi di tutto il mondo puntati addosso», ripete in queste ore il capo del governo. Consapevole che – giusto o sbagliato che sia – la credibilità del paese sia legata alla capacità di rivoluzionare un mercato del lavoro ingessato. E infatti sul tavolo resta l’arma del decreto legge. Lo strumento più efficace per dare risposte all’Ue e al vertice europeo confermato per il prossimo 8 ottobre. Lo conferma Filippo Taddei, il giovane economista che ieri ha ricevuto la delega sul lavoro nella nuova segreteria unitaria: «Qualora si arrivasse alla rottura del “patto repubblicano” nel partito si passerà a valutare l’alternativa alla legge delega. Non mettiamo il carro davanti ai buoni». Dove per «patto repubblicano» Taddei intende il rispetto della regola aurea secondo la quale le minoranze, in caso di voto della Direzione del partito, si adeguano alle decisioni.
Ma nessuno tra i renziani si nasconde le difficoltà di un passaggio che molti definiscono «storico». Renzi stesso, più che agli attacchi di Fassina, Bersani e Damiano, guarda con una certa preoccupazione alla reazione dei sindacati, già pronti a una dura mobilitazione contro la riforma del lavoro. Tanto che qualcuno si spinge a ipotizzare una stagione di scontro lacerante come quello che nel 1984 contrappose Craxi e Berlinguer sulla scala mobile. Non a caso Taddei invita a «non ridurre tutto a un referendum pro o contro l’articolo 18», allargando lo zoom al nuovo sistema di protezioni sociali con cui il lavoratore licenziato sarà accompagnato da un’azienda a un’altra.
Quello che invece a Renzi proprio non va giù è questo nuovo ribollire di «incontri, riunioni di corrente, cene carbonare» che sta animando la minoranza. Il dito è puntato contro Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. «Siamo alla follia e proprio nel giorno in cui io riunisco la segreteria unitaria con dentro i loro rappresentanti». Se da un lato l’opposizione interna rialza la testa, mostrando quanto breve sia stata la stagione di pax renziana imposta dal 40,8% delle Europee, sull’altro fonte il capo del governo aspetta di capire se l’intesa con Berlusconi sulla riforma elettorale si consoliderà nei voti parlamentari. Nonostante le promesse e le tante parole spese nel vertice di palazzo Chigi, il premier infatti si mantiene guardingo. «Non so fino a che punto fidarmi di Berlusconi, voglio vedere cosa faranno in commissione». I due si sono lasciati con l’intesa che lunedì da Forza Italia arriveranno risposte precise sulle proposte di modifica discusse nel summit: 40% di soglia per il ballottaggio, abbassamento clausole di sbarramento, capolista bloccati e preferenze. «Lunedì è il termine. Poi basta – avverte Renzi – , noi andiamo avanti comunque. Sulla legge elettorale si chiude».
A due giorni di stanza emergono intanto altri particolari sui contenuti del faccia a faccia con il leader di Forza Italia. Berlusconi avrebbe chiesto al premier di non «stravolgere» le leggi sulla giustizia approvate dal suo governo, in particolare la legge sul falso in bilancio e la prescrizione breve. «Non vuole confida un forzista che ha parlato con il capo – che la sua stagione sia vissuta come un periodo di leggi ad personam dopo le quali è arrivato un cavaliere bianco che ha cancellato tutte le brutture. Rivendica di aver fatto riforme che servivano alle imprese, per sottrarle al predominio delle procure». Ma Renzi pare abbia fatto finta di non sentire. (Repubblica)
Il Pd si spacca sull’articolo 18. Bersani: «Intenzioni surreali» . Orfini: ok, ma estendere le tutele a tutti
«Un contratto a tutele crescenti? Io non ho nessuna obiezione, purché riguardi nuovi e vecchi, tutti quanti. Se parliamo di un contratto a tutele crescenti significa che da un certo punto in poi le tutele crescono. Compreso l’articolo 18». L’ex segretario Pier Luigi Bersani sembra voler fare della difesa dell’articolo 18 una vera e propria battaglia, nel Pd e in Parlamento, mettendosi alla testa dei tanti contrari e dei tanti malcontenti tra i dem. E ieri, nel giorno del primo via libera della commissione Lavoro del Senato alla delega, la parola più pronunciata tra i deputati dem è stata “chiarimento”.
Sulla posizione di Bersani anche Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, e l’ex viceministro del governo Letta Stefano Fassina. Damiano chiede una convocazione urgente dei gruppi parlamentari alla presenza di Matteo Renzi per risolvere l’«ambiguità di fondo» prevista dal testo votato ieri in commissione a Palazzo Madama. E Stefano Fassina – che già aveva giudicato «inaccettabile» e «di destra» la volontà del governo di abolire l’articolo 18 per i neoassunti sostituendo la reintegra con un indennizzo proporzionato all’anzianità del lavoratore – punta i fari sulla delega nel suo complesso, oltre il nodo dell’articolo 18: «Occorre disboscare la giungla dei contratti precari». Ma contro la delega non ci sono solo i “vecchi” o una personalità “contro” come Fassina. La novità di ieri è la posizione critica assunta dal “giovane turco” Matteo Orfini, scelto da Renzi per la delicata carica di presidente del partito e ormai da mesi distante da bersaniani e dalemiani su una linea di unità attorno alla leadership renziana. «I titoli del Jobs act sono condivisibili. Lo svolgimento meno: ne discuteremo in direzione, ma servono correzioni importanti al testo», ha scritto Orfini in un tweet mattutino. Nel mirino di Orfini – spiega poi il presidente Pd al Sole 24 Ore – soprattutto il fatto che il progetto del governo non prevede la cancellazione della pletora di contratti “precarizzanti” esistente, e che nell’emendamento del governo, teso a superare l’articolo 18 per i neoassunti, sono state inserite cose che nulla c’entrano, come il demansionamento e il controllo a distanza. Quanto allo specifico dell’articolo 18, da parte di Orfini non c’è una pregiudiziale, purché «le tutele siano davvero estese a tutti». Anche Gianni Cuperlo non usa toni barricaderi sull’articolo 18, e richiama l’attenzione proprio sulle risorse necessarie a mettere in piedi un vero sistema di tutele alla danese (sussidio di disoccupazione universale e politiche attive per accompagnare il licenziato verso un nuovo impiego): «Qui nessuno vuole arrestare l’azione del governo. Ma vogliamo capire cosa ci sarà scritto nel testo della legge delega sul lavoro e nei decreti attuativi». Ad una soluzione unitaria sta lavorando il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, che è anche il punto di riferimento di quell’Area riformista che ha raccolto i giovani bersaniani e dalemiani.
Certo, per Renzi il cammino verso la flexsecurity non sarà facile, anche se nessuno nel Pd evoca ancora una scissione. Ma per il premier il dado è tratto e non si torna indietro, come chiede a gran voce l’Europa e non solo (è di ieri l’incoraggiamento a proseguire sulla strada della riforma del lavoro da parte del Fondo monetario internazionale, si veda pagina 12): si discute, alcuni aspetti potranno essere cambiati, ma la reintegra per i neo assunti non tornerà. D’altra parte è già stata fissata per il 29 settembre una direzione del Pd ad hoc sul lavoro, ha notato con i suoi un Renzi irritato dalle polemiche. In ogni caso «si discuterà e poi si prenderà una decisione con il voto: a differenza del passato non siamo qui per fare convegni sul lavoro».
Il Sole 24 ore – 19 settembre 2014