«In casi estremi si rischia anche l’omicidio colposo, e guardi che la mia non è tanto una provocazione. Pensi ad un infermiere catapultato da solo, dopo pochi giorni di affiancamento, nei turni e nei meccanismi di una struttura che conosce appena. Poi, magari, passa una settimana e al posto suo ne arriva un altro nuovo. C’è chi in un anno gira decine reparti e certe dimensioni psicologiche pesano».
Luca Dall’Asta lavora all’Ospedale di Oglio Po, Azienda socio sanitaria territoriale di Cremona.
Un fiore all’occhiello, come tante realtà del Nord, della sanità pubblica. Efficienza e qualità del servizio, che si sognano nel resto del Paese. Eppure anche Luca, che è nella Rsu per la Cgil, lancia l’allarme sul precariato negli ospedali italiani. Un fenomeno che rispecchia il quadro occupazionale nazionale, proiettandolo in un settore dove la instabilità del lavoro si confronta quotidianamente con un’altra fragilità ancora più delicata, quella di chi combatte la malattia e la sofferenza. E smontando un luogo comune, il sinonimo cioè tra pubblico impiego e posto fisso.
La fotografia, nitida, è nei numeri del Conto annuale del Tesoro, aggiornati al 2016: a fronte di 647mila lavoratori stabili (erano 692mila dieci anni fa), il Servizio sanitario nazionale ne occupa più di 41mila con contratti flessibili (è il settore con più precari in assoluto, seguito dalle Regioni).
Per l’esattezza, 10.298 contratti a tempo determinato tra gli uomini, 23.012 tra le donne; 2.723 interinali uomini e 4.676 donne; 486 lavoratori socialmente utili e 378 lavoratrici; più qualche contratto di formazione lavoro. Il grosso è nelle Unità sanitarie locali, seguite dai policlinici universitari, dagli istituti di cura a carattere scientifico, e via via da tutte le altre strutture. Fin qui i dati sul personale ordinario, perché in realtà il precariato ormai si è affacciato anche tra i medici con 3581 dottori e 5.526 dottoresse a tempo determinato.
«Anche io, che ho la laurea triennale da infermiere, per tre anni ho avuto un contratto a tempo determinato che veniva rinnovato di volta in volta – racconta ancora Luca – poi ho passato il concorso e finalmente ho conquistato un contratto a tempo indeterminato. Ma per molti miei colleghi non è così». E tra i colleghi c’è Giuseppe, che viene da una città del Sud: «Sono arrivato qui e ho avuto un contratto a tempo determinato, poi scaduto quello ho aperto la partita Iva per lavorare come infermiere del carcere, che è in convenzione con l’ospedale, e adesso sono tornato al contratto a tempo determinato. Mi sembra di essere come uno di quegli emigranti italiani che andavano in America». “Viaggi della speranza” non troppo diversi dalle trasferte che oggi si sobbarcano sui pullman low cost (specialmente dal Meridione), migliaia di ragazzi diretti ai concorsi dove i posti di lavoro in ballo si contano sulle dita di una mano. Ma perlomeno in quel caso si tratta di posti fissi da infermiere professionale: «Tra gli “Oss”, operatori sociosanitari che fanno da supporto nell’assistenza di base – spiega Dall’Asta – c’è grande diffusione del precariato.
Anche con l’impiego su somministrazione, quello che un tempo si chiamava interinale.
Tante volte si tratta di colleghi che hanno fatto numeri da circo per trasferirsi dove c’è lavoro, un posto che prevede preavvisi anche di una sola settimana. Spesso devono rimanere qualche tempo in hotel prima di trovare casa». Per non parlare dei servizi, in appalto, per la pulizia e la manutenzione di ospedali e cliniche.
Insomma, niente di diverso da quanto raccontano in questi anni le storie del lavoro italiano, la vita di intere generazioni che non riescono a immaginare (e a costruire) un futuro. Il lavoro precario nelle fabbriche e nei servizi, le false cooperative e le false partite Iva. Le tutele, i diritti (e la dignità) che sono sempre meno nella disponibilità delle persone. Come dimostrano, per esempio, i dati sulla retribuzione media mensile dell’impiego interinale, che è addirittura inferiore alla soglia di povertà indicata dall’Istat: 697 euro contro 817,56 nel 2016. E va così dal 2012.
«Il precariato nella sanità pubblica – dice Michele Vannini, che segue il settore per la Cgil – è figlio degli anni di turn over bloccato e di continua spending review. Tutto questo ha comportato un aggravio sia del carico che delle condizioni di lavoro negli ospedali e nelle altre strutture. Ormai non è raro che un infermiere, quando smonta dal turno, non trovi il sostituto e così gli tocca rimanere al lavoro. Ora stiamo portando avanti un’attività proficua con varie Regioni per la stabilizzazione dei precari storici in base alla legge Madia, ma anche questo non basterà a colmare il buco di posti stabili creatosi tra il 2009 e il 2015. Serve un piano straordinario di assunzioni». Ma più che di cose straordinarie, probabilmente il Paese dei precari ha bisogno di miracoli.
Repubblica – 14 aprile 2018