L’epidemia di Ebola avrebbe potuto essere fermata sul nascere? Forse sì, se i primi casi di infezione in Guinea fossero stati resi noti senza alcun indugio e fosse stata disposta immediatamente una campagna di prevenzione efficace.
A sostenerlo è Abdoulaye Wotem Somparé, sociologo dell’Università Kofi Annan, di Conakry, laureato a Parigi, che attribuisce questo ritardo all’intreccio di ragioni culturali, politiche ed economiche: «Le istituzioni della Guinea hanno esitato a prendere provvedimenti immediati dopo i primi casi perché la regione interna, boschiva, dove sono avvenute le prime infezioni, versa in una situazione paradossale: è infatti poverissima, isolata culturalmente e oggetto di pregiudizi da parte degli altri abitanti del Paese, ma è anche molto strategica sia economicamente sia politicamente».
Non si vede un legame diretto con Ebola. «Il virus ha cominciato a diffondersi nella zona perché la popolazione locale si nutre spesso di selvaggina potenzialmente infetta, cacciata e venduta nei mercati. Dopo i primi casi le autorità avrebbero dovuto mettere in atto tutte le misure straordinarie necessarie per fermare la progressione della malattia e far partire tempestivamente una campagna di informazione in tutto il Paese». «Invece — continua il sociologo — ci sono state esitazioni per evitare di aggravare i pregiudizi nei confronti degli abitanti della regione, che sarebbero stati considerati colpevoli del flagello per le loro abitudini alimentari e i loro riti (per esempio quelli funebri), già additati come segno di scarsa civiltà. E anche gli esponenti locali più istruiti, alla comparsa dei primi casi di malattia, si sono allineati, tendendo a non drammatizzare la situazione».
Mancano ancora i risvolti strategici e politici cui accennava. «Non c’era interesse a mettere in ulteriore difficoltà migliaia di persone a causa degli errori commessi da pochi nell’alimentazione. A maggior ragione, se si considera che la popolazione in questione gioca un ruolo tutt’altro che secondario per l’elezione del presidente della Guinea, e che le prossime consultazioni cadranno nel 2015 — continua Somparé —. Se poi gli abitanti della regione vivono una situazione socioeconomica surreale, il quadro si completa. Infatti una parte del territorio non può essere coltivata perché è sotto la tutela dell’Unesco, mentre un’altra è ricchissima di minerali e ha attirato l’interesse di diverse compagnie estrattive straniere».
«Lo sfruttamento del suolo — precisa il sociologo — si tradurrebbe in lavoro per la manodopera locale, che versa in condizioni molto precarie a dispetto del fatto di camminare su una delle maggiori ricchezze del Paese: una situazione di disagio che già in passato ha acceso proteste violente. Inoltre, lo sfruttamento minerario aumenterebbe in pochi anni, in modo deciso, il Pil dell’intero Stato».
«Una campagna di comunicazione massiccia, dopo i primi casi di infezione — conclude Somparé —, avrebbe potuto da un lato far infuriare potenziali elettori e dall’altro scoraggiare gli investimenti stranieri».
Luigi Ripamonti – Il Corriere della Sera – 13 novembre 2014