Autorizza a chiamare “cotto” e “culatello” prodotti dell’industria privi dell’ingrediente principale. E la Coldiretti protesta: un autogol per la nostra economia. Va bene la crisi ma le preparazioni senza gli ingredienti ci riportano tristemente ad epoche che il nostro Paese credeva di aver relegato nella storia, quando i ricettari insegnavano a fare il pesce finto, il caffè senza caffè e gli stufati senza carne…
Cristiana Salvagni. Dopo la cioccolata senza cacao e il vino senza uva, rischiamo di trovarci nel piatto anche il prosciutto cotto senza coscia di maiale. Lo prevede una bozza di decreto messa a punto dai ministeri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico per regolare la produzione e la vendita di alcuni salumi, ma che modifica le procedure standard tradizionalmente usate per queste eccellenze del made in Italy.
Dal via libera all’uso di aromi sintetici per correggere il sapore e il colore delle materie prime di scarsa qualità all’aumento durante la lavorazione della quantità di acqua impiegata, fino al via libera per la denominazione di “prosciutto cotto” per quei prodotti fatti con altri tipi di carne, per esempio di tacchino o di cavallo.
Il provvedimento prende atto dei cambiamenti avvenuti negli ultimi dieci anni nel mercato e nelle normative europee e aggiorna un decreto del 2005. Quello, per intenderci, che ammetteva l’uso di cosce di suino congelate, in genere importate dall’estero e poi stagionate qui, per fare il prosciutto crudo. «Se già quella norma peggiorava la qualità dei nostri alimenti, nove anni dopo invece di abolirla e andare avanti torniamo indietro — denuncia Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti — perché la nuova bozza è un autogol che snatura il pregio dei prodotti italiani».
Sono almeno tre i nodi che non piacciono affatto all’organizzazione degli imprenditori agricoli. Il primo riguarda l’aumento della percentuale di umidità, da 81 a 82 punti, ammessa nel prosciutto cotto, nel cotto scelto e nel cotto di alta qualità. «Significa aprire all’uso dell’acqua come additivo — spiega il responsabile Qualità Rolando Manfredini — e di fatto venderla al posto della carne, ma il costo della carne e dell’acqua non è lo stesso: si rende legale una procedura illegale e a guadagnarci non saranno di certo i consumatori». Poi viene la questione di quei prodotti messi in vendita con il nome di “prosciutto cotto”, ma fatti senza il maiale. «Però nella nostra tradizione il prosciutto è quello di suino e chiamare allo stesso modo un coscio cotto di tacchino o di cavallo confonderà le idee di chi acquista e danneggerà i produttori», continua.
Quindi arriva il caso del culatello: un salume proliferato sul mercato dopo il riconoscimento della denominazione di origine protetta al “culatello di Zibello” e finora mai regolamentato. La consuetudine del made in Italy vuole che questa particolare sezione dei muscoli posteriori del suino, privati dell’osso, del grasso e della cotenna, venga avvolta e legata a mano in un involucro naturale, cioè il budello della vescica dell’animale. Invece il nuovo provvedimento introduce l’uso di foderi artificiali e permette il rivestimento meccanico. «Ma la mano dell’uomo deve far parte del disciplinare di produzione — avverte Manfredini — non si può robotizzare questo processo né alterare per decreto una tradizione centenaria italiana».
«Il paradosso è che il nostro export è in crescita perché nel mondo c’è voglia di Italia vera — riflette ancora Moncalvo — i clienti stranieri ci chiedono l’eccellenza e il legame con il territorio, ma con queste norme ci roviniamo la reputazione, perdiamo l’opportunità di crescere e creare nuovi posto di lavoro».
Repubblica – 19 ottobre 2014