La beffa per quelli che hanno invece superato il test, spesso costretti a iscriversi lontano da casa. «È un’ingiustizia. La prova che in Italia la meritocrazia non esiste. Io che ho passato il test, ho dovuto lasciare la mia città, Brescia, per andare a fare Medicina a Parma, spendendo 600 euro al mese per una stanza in convitto, e c’è gente che invece era stata bocciata ma grazie al ricorso al Tar si ritrova a fare l’università a due passi da casa». Antonio Baglioni è uno dei 10 mila vincitori del famigerato test di Medicina.
Purtroppo la prova dell’8 aprile scorso è stata travolta dai ricorsi: plichi manomessi, sospette copiature, anonimato violato per un autogol del Miur… Alla fine i giudici hanno ordinato l’ammissione in sovrannumero di ben 5.000 studenti: bocciati all’esame, promossi dal Tar.
Un maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero chiuso dai suoi promotori ma che di fatto si è tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perché gli atenei sono andati in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto peggiore del proprio.
Diploma scientifico, mamma maestra, papà quadro in un’azienda, Antonio il 28 settembre scorso ha fatto la valigia ed è partito per Parma. Il sistema della graduatoria nazionale unica prevede infatti che chi ha un punteggio più alto abbia diritto di precedenza su tutti gli altri nella scelta dell’ateneo. Antonio è andato bene al test, ma con i suoi 36,20 punti era più o meno attorno ai primi 7.500, non abbastanza in alto da aggiudicarsi uno dei 209 posti in palio a Brescia. Gli è toccata Parma, che era la sua sesta scelta. «E sono stato fortunato perché i miei hanno deciso di investire nella mia educazione, sopportando il costo di questa trasferta. Mentre chi ha fatto ricorso mi è passato davanti anche se stava ventimila posti sotto al mio».
In realtà, il ministero dell’Istruzione a settembre aveva emanato una nota che metteva dei paletti molto stretti per i 5.000 riammessi dal Tar: potevano iscriversi, sì, in uno degli atenei che avevano indicato in sede d’esame, ma avrebbero dovuto optare per quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il primo in graduatoria e il punteggio del ricorrente». Vietato in altre parole iscriversi a Torino, dove quest’anno c’è stato il candidato con il punteggio più alto: (80,5) ma anche a Bari (76,7), a Bologna (73,3) e alla Statale di Milano (72,6). Porte aperte invece in Molise (50,7), a Sassari (51,8) o a Salerno (53,8). Più che un’immatricolazione, una deportazione forzata.
Per evitare nuovi ricorsi il 9 ottobre il ministero ha emanato un’altra nota che rovesciava la precedente permettendo ai ricorsisti di iscriversi nella loro prima scelta. Con buona pace di tutti gli altri studenti con la valigia, come la comasca Claudia Colombo: «Io con i miei 37,8 punti sono finita da Pavia a Torino Molinette: spendo 350 euro per una stanza ma sono in un’ottima università. Conosco una ragazza di Varese che aveva passato il test ma ha dovuto rinunciare perché era finita a Salerno. E poi sono scocciata perché l’arrivo di quelli che hanno fatto ricorso ci ha costretto a fare lezione seduti per terra».
Da Padova a Palermo non si contano i disagi che le ammissioni in sovrannumero hanno creato. Inizio dei corsi rinviato, aule stracolme, lezioni in videoconferenza.
Una prova generale del caos che rischia di travolgere gli atenei se davvero il ministro Stefania Giannini terrà duro sull’ipotesi di abolire il test a favore di una selezione a metà o alla fine del primo anno. A Bari la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando: oltre 600 contro i 237 di partenza. Spingendo i «regolari vincitori di concorso» a sottoscrivere un manifesto di protesta che si concludeva — amaramente — così: «Vogliamo “solo” studiare». Quello che più fa arrabbiare è l’ingiustizia di un sistema che finisce per penalizzare chi segue le regole, giuste o sbagliate che siano. «Conosco gente che, anche prima di fare il test, aveva già deciso di fare ricorso in caso di bocciatura», dice Claudia. «E poi non è giusto per tutti gli altri che invece sono rimasti fuori perché hanno accettato il verdetto», conclude Antonio.
Orsola Riva – Il Corriere della Sera – 10 novembre 2014