Francesca Schianchi. Bisogna fare alla svelta, «relativamente presto», ma soprattutto «bene». Il «relativamente presto», indicato dal viceministro dell’Economia Enrico Morando, consiste in qualche giorno: un Consiglio dei ministri è convocato per lunedì, e, anche se l’ordine del giorno ancora non c’è, è in quell’occasione che arriverà con ogni probabilità il decreto del governo per dare applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale del 30 aprile che boccia il blocco dell’indicizzazione delle pensioni oltre tre volte il minimo per due anni, deciso nel 2012 sotto il governo Monti.
È atteso così fra quattro giorni il testo che il premier Renzi – ricevuto ieri dal presidente Mattarella, con cui ha discusso anche di questo argomento – sarebbe stato tentato di rinviare invece a dopo le elezioni Regionali. «Il ministro Padoan ci ha promesso misure nei prossimi giorni», preme da Bruxelles il commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici.
L’equilibrio di bilancio
E poi c’è il «bene» evocato dal viceministro Morando, che significa muoversi «nel contesto della Costituzione», cioè di quell’articolo 81 riformato proprio sotto il governo Monti che «ci impegna all’equilibrio di bilancio»: tante le ipotesi ancora sul tavolo per dare applicazione alla sentenza, e se anche Morando non si sbilancia, fornisce alcuni elementi utili a capire la direzione del governo. «La Corte indica due ragioni di illegittimità – spiega il viceministro – la temporaneità, perché due anni (di blocco, ndr.) erano troppi, e la mancata progressività»: quindi «credo che rimuovendo queste due ragioni di negatività si ottemperi alla sentenza». Come? Circola l’ipotesi di restituire solo uno dei due anni di mancato adeguamento al costo della vita. Ma la soluzione più accreditata è quella che prevede di privilegiare i redditi più bassi: che si proceda cioè con rimborsi progressivi solo per i pensionati meno abbienti, da quelli che percepiscono tre volte la minima (1443 euro lordi) fino a un tetto massimo che dovrebbe collocarsi fra i 2500 e i 3500 euro lordi (tra cinque e sette-otto volte la minima), per una spesa complessiva di circa 3,5 miliardi, di cui 1,6 preso dal cosiddetto «tesoretto» evocato dal governo qualche settimana fa, e il resto dal rientro di capitali dall’estero.
La minaccia dei ricorsi
Un’ipotesi che vede sul piede di guerra chi sarebbe eventualmente escluso (aleggia già la minaccia di ricorsi), ma su cui il governo si sta orientando. «Affronteremo la situazione con spirito di equità, all’interno del sistema previdenziale», garantisce il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «senza scaricare ulteriori pesi sulle future generazioni». Tasto su cui insiste anche il presidente dell’Inps, Tito Boeri: gli oneri «sono sopportabili per l’Istituto», il problema è piuttosto di «conti pubblici», ma certo «spero la scelta sia basata sull’equità non solo tra chi ha di più e chi ha di meno, ma anche tra chi ha avuto di più e chi è chiamato a dare di più ma avrà di meno». Insomma, dice Boeri, «spero ci sia equità non solo intragenerazionale con contributi più alti da redditi più alti, ma anche intergenerazionale».
Le valutazioni
Tutta una serie di valutazioni che il governo sta facendo. «Ricordiamoci che questa sentenza riguarda le pensioni da tre volte la minima in su: esclude cioè 11 su 16 milioni di pensionati», considera il responsabile economico del Partito democratico, Filippo Taddei, «non riguarda cioè il 70% più povero», aggiunge. Qualunque sia la scelta, a Palazzo Chigi sanno bene che il rischio di una soluzione impopolare è alto.
La stampa – 14 maggio 2015