Il Corriere della Sera. Nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) non si parla più di Quota 100. Nel testo finale (337 pagine) la Lega è riuscita a far togliere il riferimento, che c’era nella versione precedente, al fatto che Quota 100, come prevede la legge, terminerà alla fine di quest’anno e non sarà prorogata. Nonostante ciò, la stessa Lega sa che la “sua” riforma introdotta sperimentalmente dal governo Conte 1 per ottenere la pensione a 62 anni (con 38 di contributi) non potrà essere meccanicamente riproposta: costa troppo e non è quello che serve. Privilegia infatti il segmento più forte dei lavoratori: dipendenti maschi con una lunga carriera. Tanto è vero che sono poche le donne che hanno utilizzato Quota 100. Ciò che serve ora alla luce delle conseguenze della pandemia, che si abbatteranno pienamente sul lavoro quando verrà meno il blocco dei licenziamenti, è, come ammette la stessa Lega, «uno scivolo per le imprese che ristrutturano». La priorità, cioè, è impedire che restino senza stipendio e senza pensione decine di migliaia di lavoratori delle aziende che non riusciranno a riprendersi.
Per scongiurare il rischio che, come dice la Cisl, si abbia un’ondata di «esodati» bisogna evitare lo «scalone» che si alzerebbe alla mezzanotte del 31 dicembre 2021 con la fine di Quota 100. Dal primo gennaio 2022, infatti, per andare in pensione ci vorrebbero 67 anni o, per uscire prima, 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) indipendentemente dall’età. I sindacati sono preoccupati. E ieri il leader della Cgil, Maurizio Landini, ha rilanciato le proposte della piattaforma Cgil, Cisl e Uil, in particolare l’introduzione di un’età di uscita flessibile a 62 anni: «Abbiamo chiesto a Draghi e al ministro del Lavoro Orlando di attivare un tavolo».
Un’apertura importante alle posizioni sindacali è arrivata dall’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, grande esperta di previdenza: «L’uscita flessibile proposta da Landini è un’ottima cosa, ma bisogna vedere chi paga». Già ora, ricorda Fornero, il sistema contributivo, che si applica integralmente a chi ha cominciato a lavorare dal 1996 in poi, prevede la possibilità di andare in pensione a 64 anni anziché 67, a patto che l’assegno maturato sia di importo pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale (circa 1.288 euro al mese). «Ma fare 62 anni con il metodo contributivo intero — sottolinea Fornero a LaPresse — significa pagare pensioni più basse». In realtà, i sindacati vorrebbero l’età flessibile ma conservando il regime misto (contributivo pro quota per tutti solo dal 2012), il che equivarrebbe a scaricare sull’Inps il costo delle pensioni anticipate. Il governo, invece, per ora ragiona innanzitutto di strumenti per gestire le uscite legate alle ristrutturazioni aziendali, come il potenziamento del contratto di espansione e dei fondi bilaterali di prepensionamento (modello bancari), oltre che del rafforzamento dell’Ape sociale. E anche Fornero ritiene che siano «ragionevoli» interventi «mirati».