Oggi le consegne del vaccino Pfizer avranno 165 mila dosi in meno e a decidere in quali Regioni tagliare è l’azienda americana. Il rischio è quello di non avere garantita la fornitura sufficiente per la seconda dose. Possibile iniettarla oltre i 21 giorni? E cosa si rischia se il rallentamento non sarà solo di una settimana? Dietro il ritardo di Pfizer i sospetti del ruolo americano
Le reazioni di rabbia da parte dei paesi nordeuropei, le minacce di azioni legali da parte dello stesso governo italiano, hanno avuto un effetto piuttosto ridotto. Rispetto allo slittamento di 15-20 giorni annunciato in prima battuta, ora Pfizer promette un rallentamento soltanto di una settimana, garantendo il recupero della consegna per il 25 di gennaio, con un aumento del ritmo a partire da metà febbraio.
I rischi per il piano italiano
Delle 562.770 dosi settimanali previste per l’Italia, arriverà il 30% di fornitura in meno. Le 397.800 dosi in totale consegnate da oggi, 18 gennaio, devono contribuire a un momento fondamentale della prima fase di campagna vaccinale: quello del secondo richiamo. Per ottenere una protezione completa e quindi essere parte della copertura necessaria per l’immunità di gregge, sarà fondamentale sottoporsi alla seconda iniezione di Pfizer dopo gli indicati 21 giorni.
Considerati i primi momenti di campagna vaccinale come date di rodaggio (compreso il V Day del 27 dicembre), e cominciando a contare dal 31, giorno in cui le somministrazioni sono iniziate su tutto il territorio nazionale, il 20 gennaio risulterebbe la data ufficiale per partire con il secondo richiamo. In buona sostanza tra appena due giorni gli operatori sanitari, primi in assoluto ad aver ricevuto la somministrazione della dose 1, dovranno essere chiamati per la seconda.
Un momento decisivo che il Paese vivrà di fatto all’ombra di 165 mila dosi consegnate in meno e con una promessa da parte di Pfizer di cui ci si dovrà fidare senza molte alternative. Come senza scelta da parte del governo è stata la decisione su quale Regione penalizzare per il taglio di fornitura.
Le regioni penalizzate
Pfizer consegna, Pfizer decide (o almeno questo è il principio a cui si è attenuta): sotto indicazione dell’azienda di distribuzione, oltre alle uniche 5 Regioni non toccate dai tagli (Marche, Abruzzo, Basilicata, Umbria e Valle D’Aosta), Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna saranno tra i territori più penalizzati, insieme a Lazio, Puglia e soprattutto Friuli Venezia Giulia con il 54% di dosi in meno.
Le soluzioni estreme sono due: ricorrere (per chi lo ha messo da parte) al 30% di fiale Pfizer lasciato come scorta e alle poche dosi di Moderna (per chi le ha ricevute), o rallentare ufficialmente il piano vaccinale della regione. Ma durerebbero comunque poco. Dal 28 di gennaio, visto che nella seconda parte della campagna vaccinale il ritmo è aumentato di parecchio, al primo gruppo si sommerà un altro mezzo milione di persone che chiedono la seconda dose e lì non ci saranno scorte che tengano.
Dunque, Pfizer dovrà necessariamente mantenere la promessa di un ritmo tornato a pieno regime dal 25 di gennaio o il richiamo della seconda dose verrebbe seriamente messo a rischio, con tutto quello che ne consegue per le tempistiche dell’intera campagna. Come già calcolato da Open, i numeri promessi dal piano vaccinale italiano si sono presentati deboli sin dall’inizio, soprattutto per ciò che riguarda la prossima categoria di popolazione da vaccinare e cioè gli ultra 80enni.
Alla luce di quanto successo nelle ultime ore, se l’allarme dei rallentamenti non dovesse rientrare in modo definitivo, anche per loro il momento della prima iniezione continuerebbe ad allontanarsi, a discapito della promessa di Arcuri di vaccinarli tutti «entro fine marzo», e comunque, «già dai prossimi giorni». Con gli 8,794 milioni di dosi garantite da Pfizer (a ritmo regolare), e il primo milione e 300 mila di Moderna, mancherebbero all’appello della prima fase circa 3 milioni di dosi di vaccino anti Covid.
Alla cifra mancante ora si aggiunge il 30% assente nella fornitura settimanale prevista per oggi e quindi le 165 mila iniezioni eseguite in meno. Ancor di più, un pericolo di ritardo per il completamento della vaccinazione di operatori sanitari e ospiti delle Rsa, a cui è stata riconosciuta massima priorità fin dall’inizio.
Possibile ritardare la seconda dose e di quanto?
I 21 giorni stabiliti dal protocollo Pfizer per il secondo richiamo sono strettamente collegati all’efficacia del siero sull’organismo: gli studi scientifici legati allo Pfizer hanno dichiarato un range di immunità garantita dalla prima dose tra il 29,5% e il 62,4%. Questo vuol dire che la probabilità che la prima iniezione non raggiunga il valore minimo di efficacia del 50% stabilito dall’Oms è effettiva.
L’efficacia al 95%, come da annunci fatti dallo stesso team di ricerca, viene invece garantita soltanto a 2 settimane dalla seconda dose, da somministrare a 21 giorni di distanza dalla prima. E se i 21 giorni non fossero rispettati? Le percentuali di efficacia raggiungibili con le due dosi piene si ridurrebbero? Il direttore dell’istituto di genetica molecolare del Cnr, Giovanni Maga, raggiunto da Open risponde alla domanda:
Il riferimento di tempo a cui attenersi deve essere il più possibile quello validato dalla sperimentazione di questo vaccino: quindi i 21 giorni. Lì abbiamo la garanzia e il dato oggettivo del tipo di immunità che il siero garantisce.
È vero che possiamo anche avere un margine, ma direi di non andare oltre una settimana. Il rischio è che se si aspetta troppo, l’immunità indotta dalla prima dose si abbassi notevolmente e che quindi la seconda dose abbia un’efficacia minore. La prima dose infatti inizia a mettere in movimento il nostro sistema immunitario, la seconda trova già un terreno fertile su cui stimolare ulteriormente il numero di cellule che poi produrranno gli anticorpi. Somministrando la seconda dose con una risposta immunitaria che sta già svanendo, la stimolazione potrebbe non avere la stessa efficacia. Occorre quindi prudenza nel non aspettare troppo oltre il tempo stabilito dai protocolli.
La stessa prudenza predicata dal virologo Maga, è stata più volte raccomandata anche dall’Agenzia italiana del farmaco. Alla luce di quanto accaduto nel Regno Unito riguardo la scelta di allungare di molto i tempi della seconda dose per garantire a più persone possibili la prima, Aifa invita a non seguire l’esempio.
Sulla linea più morbida ci sarebbe l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms):
«In circostanze eccezionali si può aspettare fino a sei settimane per la somministrazione della seconda dose. Dove per circostanze eccezionali si intendono problemi di fornitura o situazione epidemiologica grave».
Insieme, per l’Italia, al membro del Comitato tecnico scientifico, professor Luca Richeldi che se da un lato osa sul margine di tempo, dall’altro tenta di rientrare nelle direttive dell’Agenzia italiana:
«È possibile che anche ad una distanza di 42 giorni per il richiamo sia garantita l’efficacia del vaccino. Ma non è questa l’attuale indicazione dell’Aifa e non prevedo che sia modificata a breve».
Nella selva dei pareri discordanti, però, è chiaro che a prevalere è la linea del rispetto del protocollo fissato dalla Pfizer.
I sospetti sui ritardi: ingenuità o rischio calcolato (e taciuto)?
Ripercorrendo le dichiarazioni arrivate da Pfizer nelle ultime settimane, l’attuale quadro dei ritardi potrebbe risultare non così inaspettato. Era l’1 gennaio quando il capo dell’azienda tedesca BioNtech, U?ur ?ahin, lanciava un chiaro allarme sulla difficoltà che di lì a poco avrebbero avuto per far fronte alla richiesta di forniture. «Se altri vaccini contro il Coronavirus non saranno approvati subito in Europa, l’azienda da sola non riuscirà a coprire il fabbisogno», aveva detto ?ahin.
Informando quindi su un buco di dosi che di lì a poco si sarebbe verificato e che Pfizer non avrebbe potuto risolvere. Un segnale di difficoltà che, alla luce dei fatti attuali, potrebbe acquistare un senso ancora maggiore. La motivazione del ritardo presentata da Pfizer difatti è proprio quella di un «necessario potenziamento dell’impianto belga» per riuscire a sostenere la produzione dei prossimi mesi. Insieme a questa anche la notizia della costruzione di un nuovo stabilimento in Germania.
Andando avanti nel tempo, forse non proprio a caso era stato il suggerimento da parte di Pfizer nei confronti delle autorità italiane di recuperare la sesta dose di vaccino dalle singole fiale, fino a quel momento utilizzate per 5 iniezioni. L’aggiunta avrebbe permesso di ottenere il 20% in più rispetto al milione di dosi fino a quel punto somministrate.
Secondo la linea meno sospettosa, dunque Pfizer avrebbe provato a reggere fino all’ultimo nella speranza di altre autorizzazioni in arrivo, per poi doversi arrendere al necessario ampliamento. Una versione che, se vera, taccerebbe il colosso farmaceutico quantomeno di ingenuità: iniziare un’imponente campagna vaccinale prevedendo la possibilità di un ampliamento in piena corsa equivale ad essere scesi in campo con un rischio di rallentamento già implicito. E di aver quindi assicurato ai Paesi membri un piano distributivo a rischio ancora prima di cominciare.
L’America c’entra qualcosa?
Tra i sospetti, che per ora rimangono tali, anche quello di un servizio negato all’Europa per favorire in silenzio alcune delle forniture americane. Il piano vaccinale annunciato il 14 gennaio dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, prevede 1.900 miliardi di dollari investiti per la somministrazione di 100 milioni di dosi in 100 giorni. Una dichiarazione di numeri importanti a cui il giorno immediatamente successivo ha fatto seguito la comunicazione di Pfizer all’Europa di un taglio di dosi per circa 4 settimane.
La vicinanza dei due episodi ha alimentato il sospetto, insieme al dato non secondario sullo stabilimento belga in fase di ampliamento: l’impianto di Puurs non rifornisce soltanto i Paesi europei. Dubbi che alimentano uno scenario già complesso e che rischiano di dare adito agli umori di scetticismo e sfiducia ora più che mai nemici della lotta al virus.
Il vincolo dell’azienda statunitense con l’Europa è quello di consegnare le dosi accordate entro la fine del primo trimestre 2021, ma i ritmi del piano distributivo rimangono un patto di fiducia su cui i governi non possono far altro che sperare
Le maglie larghe sui tempi negli accordi europei
Quando la Commissione europea ha siglato i contratti per i 27 Paesi membri ha accettato alcune fondamentali condizioni imposte dalle sei Big Pharma, una su tutte la non garanzia del risultato e le relative conseguenze sul piano delle tempistiche. Esempio lampante Astrazeneca, che ha allungato più volte la sperimentazione, o la stessa Sanofi che ha tolto qualsiasi speranza di un vaccino anti Covid prima di giugno. Non è diverso il discorso per Pfizer: l’unico vincolo sulle consegne che lega l’azienda all’Europa è il garantire la fornitura promessa entro la fine del primo semestre 2021. Nessun obbligo sulla cadenza degli invii, nessun calendario vincolante, piuttosto la piena libertà su un piano distributivo ad oggi completamente nelle mani dell’azienda farmaceutica.
La poca voce in capitolo dei governi ha avuto conferma anche nella stessa decisione presa da Pfizer per l’Italia su quali Regioni avrebbero dovuto subire i tagli di consegna: «In modo del tutto arbitrario Pfizer ha deciso come ridistribuire la nuova fornitura» si è lamentato ieri il Commissario per l’emergenza Domenico Arcuri. «Questa decisione non condivisa né comunicata ai nostri uffici produrrà un’asimmetria tra le singole regioni» ha continuato. Pfizer sta dunque decidendo entro i limiti dell’accordo preso, i governi entro quegli stessi limiti sbattono i piedi per terra.
Le armi spuntate per gli avvocati di Arcuri
E così unendosi alla lamentela collettiva di Stati membri del tutto impotenti, Arcuri ha minacciato l’azienda produttrice del vaccino anti Covid di procedere per vie legali. Dal ministro Speranza invece è arrivata la richiesta di «lealtà e rispetto dei patti», insieme alle rassicurazioni ottenute dalla commissaria europea alla Salute Stella Kyriakides, esortata di assicurarsi che tutto vada come promesso. Ma il punto è che se minacce di azioni legali ed esortazioni rischiano da un lato di servire a poco, dall’altro lo sperare che «andrà tutto bene» non basta più.