Bruno Benelli. Sulla pensione a 70 anni qualcosa si muove. La Corte di cassazione vuole vederci chiaro e, pur non prendendo alcuna decisione su un ricorso presentato da un dipendente Rai, trasmette le carte al primo presidente per una eventuale assegnazione alle Sezioni Unite “stante la particolare importanza della questione”.
Il caso nasce con la riforma Fornero, con la quale le età per la pensione Inps di vecchiaia sono schizzate in alto ed è stata data la possibilità, per chi vuole, di lavorare fino ai 70 anni, incentivata dalla creazione dello “zuccherino” dei coefficienti di calcolo introdotti anche per le età da 66 a 70 anni, ovviamente in misura più appetibile rispetto a quelli riferiti alle età precedenti.
Molti lavoratori hanno iniziato a chiedere il riconoscimento della nuova “frontiera” anagrafica ( non tutti gli italiani sono rosi dalla voglia di pensionarsi il prima possibile), ma le aziende hanno detto no. In alcuni casi sono iniziati i ricorsi ai tribunali,e poi alle Corti d’appello, ma finora i lavoratori sono rimasti sconfitti .Secondo i giudici il problema si presenta nel seguente modo.
1 – E’ vero che esiste l’incentivo a lasciare il lavoro più tardi, ma la legge ha confermato i limiti anagrafici attuali. Che in questo momento per l’Inps sono 66 anni + 3 mesi per le donne del settore pubblico e per gli uomini; 63 anni + 9 mesi per donne dipendenti settore privato e 64 anni + 9 mesi per donne autonome e parasubordinate.
2 – In sostanza i lavoratori non hanno alcun diritto potestativo di scegliere in via autonoma fino a quale età lavorare. La norma di legge è soltanto un invito programmatico e nulla più.
3 – Si può lavorare più a lungo ma solo se lo consente il datore di lavoro. Senza il sì dell’azienda niente lavoro fino a 70.
Ora la Cassazione, esaminando un caso proposto dalla Corte d’appello di Milano, fa presente che in linea di principio sono valide entrambe le tesi: a) del ricorrente che sostiene il pieno diritto dei lavoratori di determinare la data di decorrenza della pensione oltre i 66 anni; b) del datore di lavoro che insiste a sottolineare la insussistenza di un vero e proprio diritto di opzione, in quanto è necessario il consenso del datore di lavoro all’attuazione del sistema di incentivazione al pensionamento oltre l’ordinaria età pensionabile.
I giudici, come detto all’inizio, sottopongono il caso alle autorità superiori (sentenza 23380/2014) proprio perché qualsiasi soluzione adottata finisce per incidere sui diritti delle parti e anche sull’assetto degli equilibri del sistema pensionistico con ripercussioni a catena sui sistemi di calcolo delle rendite.
La partita è aperta. Vedremo cosa dirà l’”arbitro” chiamato in causa e se la problematica approderà al vaglio delle Sezioni Unite.
La Stampa – 8 dicembre 2014