Come accade sempre quando si tocca il Testo unico del pubblico impiego, il cliché mediatico e politico della lotta all’assenteismo è partito puntualmente fino a oscurare anche gli aspetti più centrali della riforma in cantiere. Nel frattempo i numeri della realtà, quelli raccolti ogni anno dalla Ragioneria generale dello Stato sulle presenze dei dipendenti pubblici, indicano una situazione più articolata di quella tagliata con l’accetta dal dibattito pubblico.
Primo: le assenze per malattia nella pubblica amministrazione sono in discesa, mentre crescono in modo rilevante quelle legate ai permessi che la legge 104 del 1992 concede per l’assistenza ai famigliari disabili. Secondo: la situazione è parecchio differenziata da amministrazione ad amministrazione.
Ma partiamo dal primo punto. Nel 2015, l’anno monitorato dall’ultima edizione del conto annuale del personale pubblico sfornata qualche settimana fa dalla Ragioneria generale, i dipendenti di Stato ed enti territoriali hanno accumulato 30 milioni di giorni di assenza per malattia: un dato che segna un crollo del 6,2% rispetto ai 32 milioni dell’anno precedente, e si ferma quattro punti sotto i 31,3 milioni di assenze del 2011.
A questa mole di assenze, che continua in ogni modo a indicare livelli medi superiori a quelli che si registrano nel privato, le diverse amministrazioni contribuiscono in modo assai diverso fra loro. Molto intenso, per esempio, è l’apporto che arriva da Palazzo Chigi e dai ministeri, dove i dipendenti uomini presentano il certificato medico per 9-10 giorni pro capite e le loro colleghe arrivano a 11,5-13 giorni all’anno. All’altro capo della graduatoria, fra le grandi amministrazioni, c’è il personale tecnico dell’università (2,7 giorni medi annui di malattia per gli uomini e 5 per le donne), mentre fra i settori più piccoli va segnalata la performance dei diplomatici (meno di un giorno all’anno di malattia gli uomini, tre le donne).
Netta è invece l’impennata dei permessi per l’assistenza ai famigliari disabili. Dopo aver accelerato molto nel 2013, quando i permessi hanno superato i 6,6 milioni di giorni con un aumento del 14,6% rispetto all’anno prima, la tendenza ha continuato al rialzo anche negli anni successivi fino a sfiorare i 7 milioni di giorni nel 2015. Anche in questo caso il quadro cambia a seconda dell’ente preso a riferimento, e su una questione delicata e cruciale come quello dell’assistenza sono indispensabili strumenti puntuali di controllo dal momento che gli abusi mettono a rischio prima di tutto i diritti di chi ha invece un’esigenza reale.
In ogni caso, la questione-assenze è tornata al centro del dibattito soprattutto per due misure previste dalle bozze del nuovo decreto sul pubblico impiego: il ritorno della competenza accentrata all’Inps sulle visite fiscali, accompagnata da un finanziamento da 27,7 milioni all’anno per evitare che i controlli si fermino per problemi di soldi, e l’«armonizzazione» fra pubblico e privato delle regole sulle fasce di reperibilità. Oggi, però, la reperibilità dei dipendenti pubblici in malattia è di 7 ore, contro le 4 previste nel privato, e un decreto della Funzione pubblica (come previsto dalle bozze) non può che avvicinare i pubblici ai privati riducendo le ore. È però l’esatto contrario della proposta lanciata nei giorni scorsi dal presidente dell’Inps Tito Boeri (si veda Il Sole 24 Ore del 10 febbraio), che chiede invece di ampliare l’orario di riferimento dei dipendenti privati: un percorso, questo, che ha però bisogno di un intervento del ministero del Lavoro.
Il Sole 24 Ore – 13 febbraio 2017