Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Regno Unito sono Paesi caratterizzati da maggior grado di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Lo attesta il rapporto elaborato da Istat, Inps e Ministero Lavoro
Nell’Europa a 15, sono i Paesi meridionali, insieme al Regno Unito, quelli dove più forte è la disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Lo attesta l’Istat nel suo Rapporto sulla coesione sociale 2011, elaborato insieme all’Inps e al ministero del Lavoro con l’obiettivo di fornire, in modo particolare ai policy maker, le indicazioni basilari per poter prendere decisioni.
In base al rapporto fra la quota di reddito del 20% più ricco e quella del 20% più povero della popolazione, nel 2010 Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Regno Unito sono i Paesi caratterizzati dal maggior grado di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, mentre i Paesi con la minore differenza nell’Europa a 15 sono i Paesi Bassi, l’Austria, la Finlandia e la Svezia.
I dati relativi al rischio di povertà monetario, avverte l’Istat, non necessariamente si riflettono in situazioni di estremo disagio economico. Nel 2010, i paesi dell’Ue a 15 che mostrano i tassi più preoccupanti di grave deprivazione materiale sono la Grecia (11,6%), il Portogallo (9,0%) e l’Italia (6,9%); invece in Finlandia, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Lussemburgo la percentuale di persone coinvolte in situazioni di disagio economico grave è inferiore al 3%. L’indicatore sintetico «Europa 2020», che considera le persone che sono a rischio di povertà oppure di esclusione sociale (perché vivono in famiglie materialmente deprivate o a bassa intensità lavorativa), nel 2010 è superiore al 22% in sei paesi dell’Europa a 15 (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna e Regno Unito). Risulta più contenuto nei paesi scandinavi, in Austria e nei Paesi Bassi.
In Italia, il rischio di povertà o di esclusione sociale è relativamente maggiore per le famiglie con tre o più figli, soprattutto se minori, e per quelle con un solo genitore. La situazione delle coppie con figli non tutti minori appare invece più o meno critica in relazione alla partecipazione al mercato del lavoro di almeno due percettori di reddito.
Se invece si guarda alla povertà relativa, le famiglie povere in Italia sono 2 milioni 734mila (11 per cento delle famiglie residenti) che corrispondono a 8 milioni 272mila individui poveri, il 13,8% dell’intera popolazione, in pratica un italiano su sette. Il 10,2% delle persone povere, precisa l’Istat, vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, dove cioè meno del 20% del tempo disponibile è impiegato in attività lavorative. Questo dato, osservano i ricercatori dell’Istituto di statistica, si spiega anche con la prolungata convivenza con i genitori dei giovani tra i 18 e i 34 anni in cerca di occupazione. Dal rapporto si desumono inoltre molti altri aspetti di disagio vissuti durante il percorso di vita dagli italiani. Per esempio, nel 2010 la quota di giovani 18-24enni che hanno abbandonano prematuramente gli studi o qualsiasi altro tipo di formazione è stata pari al 18,8%. È un valore nettamente superiore a quello dell’Unione europea a 25 paesi (13,9%) e ancora lontano dall’obiettivo stabilito dalla Strategia Europa 2020 della Commissione europea, che intende portare gli abbandoni sotto la soglia del 10%. Inoltre, nel mercato del lavoro italiano il divario di genere è ancora piuttosto accentuato e nel 2010, in media, gli uomini hanno percepito una retribuzione più elevata (1.407 euro) rispetto alle donne (1.131 euro):si tratta del 24,4% in più.
Lavoro: aumentano i precari Donne pagate il 20% meno
Più precari e più discriminati. Sono i lavoratori italiani descritti nel rapporto sulla coesione sociale messo a punto da Inps, Istat e Ministero del Lavoro. Uno studio che fotografa una situazione difficile dove, nel 2011, le donne guadagnano il 19,2% in meno degli uomini e dove un pensionato su due ha un reddito, da pensione, inferiore ai mille euro. Ma non basta: nei primi sei mesi dello scorso anno, rispetto allo stesso periodo del 2010, gli occupati assicurati Inps sono cresciuti di appena 5mila unità, ma solo il 19% dei nuovi rapporti di lavoro attivati aveva un contratto a tempo indeterminato. Nel primo semestre 2011 sono stati attivati, infatti, 5.325.000 rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato, ma il 67% delle assunzioni è stato formalizzato a tempo determinato, mentre l’8,6% ha riguardato contratti di collaborazione e il 3% l’apprendistato: 687mila contratti hanno avuto la durata di un giorno.
Nel complesso il numero di dipendenti con contratto a tempo indeterminato risulta in discesa (-0,5%) e si attesta a quota 10.563.000. Il calo è molto più marcato per i lavoratori sotto i 30 anni (-7,9%). Le donne con un lavoro standard sono oltre 4.193.000, in crescita dello 0,5% rispetto al 2010, mentre i colleghi maschi (6.369.000) registrano un calo dell’1,1%. Il lavoro a tempo parziale riguarda in prevalenza l’universo femminile: nelle forme tipiche di part time, orizzontale verticale e misto, le donne rappresentano, nel 2011, rispettivamente il 74,2%, il 70,3% e il 76,7% dei lavoratori con contratto a orario ridotto.
In particolare, il numero medio di contratti di lavoro per lavoratore, dato dal rapporto tra le assunzioni registrate e i lavoratori interessati nel primo semestre 2011, è stato pari a 1,46. Nel “pianeta” del lavoro dipendente si contano nella media del primo semestre 2011 12.425.000 occupati assicurati Inps con una lieve crescita nel Nord Ovest (+0,7%) e nel Nord Est (+0,5%) e una variazione negativa nel Sud e nelle Isole (-1,4%). A pagare il conto più salato sono, ancora una volta, i lavoratori dipendenti under 30: negli ultimi 4 anno sono passati dal 21,4% al 17,6% del totale, mentre è cresciuto il peso relativo della quota femminile (dal 39,6% al 41,2%). Una progressione che però non si riflette sulle retribuzioni: le lavoratrici dipendenti italiane guadagno in media 1.131 euro netti al mese, il 19,6% in meno rispetto ai 1.407 dei dipendenti italiani uomini. Gap molto elevato anche tra italiani e stranieri, con una media di 1.286 per i primi (uomini e donne) e di 973 euro netti per gli immigrati. Il divario di genere è più accentuato tra gli stranieri con 1.118 euro per gli uomini e 788 per le donne.
Dati preoccupanti anche sul fronte dei pensionati. Nel 2010 in Italia erano 16,7 milioni: il 49,4% dei pensionati ha un reddito da pensione inferiore a 1.000 euro, il 37,4% ne percepisce uno tra 1.000 e 2.000 euro, mentre il 13% dei pensionati ha un reddito da pensione superiore a 2.000 euro.
Sempre riguardo ai giovani, sono 2,1 milioni, in Italia, i cosiddetti ‘Neet’ (Not in education, employment or training), ovvero coloro che non lavorano nè studiano. Il 38% dei ‘Neet’ ha un’età compresa tra i 20 e i 24 anni e il 14% è di nazionalità straniera, evidenzia il rapporto. La maggioranza è costituita dalle ragazze (1,7 milioni) a fronte di 938mila ragazzi.
Preoccupante l’abbandono degli studi: nel 2010 la quota di giovani 18-24enni che hanno abbandonano prematuramente gli studi o qualsiasi altro tipo di formazione è pari al 18,8%. Si tratta di un valore nettamente superiore a quello dell’Unione europea a 25 paesi (13,9%) e ancora lontano dall’obiettivo stabilito dalla Strategia Europa 2020 della Commissione europea, che intende portare gli abbandoni sotto la soglia del 10%.
Per le donne rimane difficile conciliare lavoro e casa: il 71,3% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne. In media, giornalmente, guardando all’insieme del lavoro e delle attività di cura, la donna lavora 1 ora e 3 minuti in più del suo partner quando entrambi sono occupati (9 ore e 9 minuti di lavoro totale per le donne contro le 8 ore e 6 minuti degli uomini). Per le coppie con figli il divario di tempo sale a 1 ora e 15 minuti.
L’Italia, sottolinea ancora il rapporto, è uno dei Paesi più vecchi al mondo, con un’aspettativa di vita pari a 79,2 anni per gli uomini e a 84,4 per le donne, con un guadagno rispettivamente di circa nove e sette anni in confronto a trent’anni prima. Ci si sposa sempre meno e sempre più tardi: in Italia sono stati celebrati circa 231 mila matrimoni (anno 2009), 16 mila in meno rispetto all’anno precedente. L’età media di chi convola a nozze per la prima volta è di 33,1 anni per gli uomini e di 30,1 anni per le donne (anno 2009), con uno spostamento in avanti di circa 6 anni rispetto al 1980.
Ma neppure la maggiore maturità sembra tenere a riparo dalle brutte sorprese: l’nstabilità coniugale è in aumento, con quasi 4 matrimoni su 10 (il 37,3%) che finiscono in separazioni. Nel 2009, in particolare, le separazioni legali sono state circa 86mila (+2,1% rispetto a un anno prima) e i divorzi 54mila, in aumento dello 0,2%.
14 febbraio 2012