«Il tfr così com’è c’è solo in Italia. Certo, se lo mettiamo in busta paga si crea un problema di liquidità per le imprese. Stiamo pensando di dare i soldi che arrivano dalla Bce alle piccole e medie imprese per i lavoratori».
Per la terza volta in tre giorni il premier Matteo Renzi rilancia l’idea del tfr in busta paga. La prima a «Che tempo che fa», domenica scorsa. La seconda lunedì, alla direzione del Pd. La terza ieri, durante un’intervista a «Ballarò». «La misura è in discussione ma non se ne parla nel Documento di economia e finanza», ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il premier stima l’ammontare che potrebbe entrare nelle tasche dei dipendenti: «Per uno che guadagna 1.300 euro, un centinaio di euro al mese si aggiungerebbero allo stipendio», esemplifica Renzi.
A oggi gli italiani maturano tfr per un valore di 25 miliardi l’anno. Di questi, 5,2 vanno ai fondi pensione. Altri 6 all’Inps. Circa 14 si fermano nelle casse delle piccole e medie imprese. Queste ultime, di fronte al rischio di dover fare a meno di risorse vitali in una fase di stretta creditizia, non si fanno convincere dalle rassicurazioni del premier. «Trasferire fondi dalla Bce alla piccola impresa è cosa che non si era mai vista. Non si può affrontare un tema così serio con leggerezza», taglia corto Giorgio Merletti, alla guida di Rete Imprese oltre che presidente di Confartigianato.
Il timore delle piccole aziende è che il tfr in busta paga serva anche ad alleggerire (a loro spese) l’onere per le casse dello Stato dell’operazione «80 euro». Una volta che il tfr finisse sullo stipendio, infatti, per una certa fascia di popolazione la retribuzione supererebbe il tetto oltre il quale il bonus non è concesso.
«Se il premier parla di 100 euro in busta paga per una retribuzione netta di 1.300 euro, significa che nello stipendio finisce tutta la liquidazione, non solo il 50% come ipotizzato», fa notare Alberto Brambilla, esperto di previdenza ed ex sottosegretario al Welfare. Sua la riforma della previdenza integrativa del 2005. Ma ciò che allarma di più Brambilla è un altro aspetto: «Togliere il tfr vuol dire incentivare i giovani a non tutelarsi. Con le pensioni che in media ammontano al 60% dello stipendio, il tfr è prezioso a fine carriera. E cruciale per chi resta senza lavoro».
Tutto da capire il meccanismo con cui le banche potrebbero garantire le risorse alle imprese che devono privarsi dei tfr accantonati. Ogni anno le aziende rivalutano le liquidazioni per un ammontare pari al 75% dell’inflazione più un 1,5%. Questo significa che alle imprese il tfr quest’anno costerà circa l’1,5% di interessi. Difficilmente le banche potrebbero prestare soldi a tassi migliori. «E per le aziende non meritevoli di credito servirebbe un fondo di garanzia», aggiunge Brambilla. Ultimo ma non trascurabile: all’Inps verrebbero a mancare sei miliardi l’anno.
Il Corriere della Sera – 1 ottobre 2014