Avere affidato la paziente a un altro medico non esclude la colpa per imperizia né la responsabilità del primario, che è tenuto a supervisionare l’operato degli altri medici del reparto. Per questo la Cassazione ha giudicato il primario colpevole di “disinteresse” nei confronti della paziente. LA SENTENZA.
Affidare una paziente alla cura di un altro medico non esclude né la responsabilità per imperizia del medico né quella per negligenza del primario che ha mancato di vigilare sulla salute della paziente supervisionando l’operato di medici del suo reparto attraverso un rapporto critico-dialettico.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 4985/2014 depositata il 31 gennaio scorso, chiamata a pronunciarsi sul decesso per coma diabetico di una donna di 24 anni al terzo mese di gravidanza. La donna fu dapprima ricoverata nella clinica privata dove prestava servizio il suo ginecologo, ma “sebbene le condizioni della donna peggiorassero, i diversi medici che si alternarono tennero un atteggiamento noncurante”, si evidenzia nella sentenza.
Oltre alla responsabilità per imperizia, legata alla mancata diagnosi, i giudici hanno infatti evidenziato la colpa per “negligenza” e “disinteresse” dei medici. In particolare quella del primario, per non avere vigilato sullo stato di salute della paziente mentre era assistita dagli altri medici del reparto. Aspetto, quest’ultimo, che gli avvocati difensori avevano invece invocato quale attenuante sulla base del principio di affidamento. Un richiamo “inconferente” la Corte di Cassazione. Perché “il primario era tenuto a ruolo di supervisione nei confronti degli altri terapeuti presenti nel reparto, anche quando i pazienti erano ad essi affidati”. Ed “è evidente – secondo la Cassazione – che dovendo supervisionare, non ci si può passivamente affidare ma occorre instaurare un rapporto critico-dialettico con gli altri sanitari, tanto più quando il caso si rivela per qualunque ragione di problematica risoluzione”.
Alla “gravissima imperizia rivelatasi nel non diagnosticare una banale, ricorrente patologia in presenza di chiari referti analitici e di sintomatologia conclamata e non equivoca”, per la Corte di Cassazione, dunque, nella vicenda si aggiunge “il disinteresse sostanziale nei confronti della sorte della vittima, un atteggiamento distratto, distaccato oltre misura, che rompe l’alleanza insita nella relazione terapeutica. Qui, più che la perizia è in questione la diligenza che, per chi esercita una funzione tanto alta deve essere massima”.
Quotidiano sanita – 7 marzo 2014