Il primo si è scusato con Cécile Kyenge a nome della Lega per i frequenti attacchi di cui è stata oggetto: «Si possono avere idee diverse, ma il rispetto è dovuto». Il secondo, soltanto nelle ultime 24 ore — basta visitare la pagina Facebook — è riuscito a postare quattro interventi quattro contro la ministra (in uno non è citata ma il riferimento è trasparente), per poi annunciare per l’autunno una raccolta di firme volta ad abolire il ministero all’Integrazione. L’uno è il segretario del Veneto, l’altro guida la Lombardia.
Flavio Tosi da Verona, classe 1969, e Matteo Salvini da Milano, quattro anni di meno, sono i gemelli diversi della Lega. In comune, però, hanno sempre avuto qualcosa che conta: l’apprezzamento di Roberto Maroni, che li ha voluti entrambi come suoi vicesegretari federali. Per contro, simmetria inevitabile, Umberto Bossi non ama nessuno dei due, e da ben prima della contesa tra Barbari sognanti e Cerchio magico. Per il fondatore del Carroccio, Tosi «è un fascista» e pure «uno str… ». Quanto a Salvini, l’Umberto padano ha fatto di peggio: quando nel 2010 si dibatteva sul possibile vicesindaco di Letizia Moratti (ma poi ha vinto Giuliano Pisapia), Bossi fulminò le aspettative della personalità di gran lunga più rappresentativa del Carroccio milanese con un glaciale «Salvini vicesindaco? Non credo proprio… ».
In pura teoria, nel prossimo congresso del Carroccio (in autunno? A febbraio? Ancora non è dato sapere) i due potrebbero ritrovarsi l’uno contro l’altro per contendersi la leadership. Lo stesso Maroni, dopo che per farli suoi vice aveva rudemente spintonato i loro predecessori, adombrò «la virtuosa competizione» tra «due che valgono e su cui voglio investire». In realtà, è assai difficile che la Lega si presenti a congresso con due candidati tanto diversi. Anzi, finché Maroni non avrà avuto da Bossi tutte le garanzie sul fatto che lui non si candiderà o farà altri scherzi, il congresso neppure sarà convocato.
Ma il punto vero è che i due sono portatori di progetti che più diversi non potrebbero essere. Visioni antitetiche. Addirittura, i nemici di Tosi sostengono che quella a cui pensa il sindaco di Verona non sia nemmeno più la Lega. La chiamano «la balena verde», a indicare una sorta di Democrazia cristiana di centrodestra, un contenitore dall’identità meno marcata e capace di raccogliere anime anche molto eterogenee. Certamente, un soggetto assai lontano dalle tradizionali parole d’ordine leghiste. Del resto, le «liste Tosi» hanno fatto scuola: diversamente dalle liste civiche di ispirazione leghista che ci sono sempre state (Luca Zaia fu il primo), quelle del sindaco veronese sono formate rigorosamente da esponenti non leghisti. Da questo punto di vista, quella di Matteo Salvini è una proposta assai più tradizionale, che si rivolge — diversamente da quella di Tosi — a un elettorato identitario e ancora sensibile alle parole d’ordine padane su immigrazione e sicurezza. Di qui, le ossessive sortite sul ministro Kyenge.
E così, assai meglio non spaccare in due il movimento con candidature tanto polarizzanti. Meglio cercare la terza via con un candidato che sia unico, se non nei fatti nella sostanza. Di qui nasce la candidatura di Giancarlo Giorgetti, oggi capogruppo alla Camera e fino a ieri potente segretario della Lega lombarda. Vicino a Maroni, certo. Ma con un valore aggiunto fondamentale: Giorgetti per Bossi è quasi un figlio. Una sua corsa metterebbe il movimento al riparo da sorprese organizzate dall’Umberto e dai suoi sostenitori. C’è soltanto un problema: Giorgetti non ci tiene affatto.
Marco Cremonesi – Il Corriere della Sera – 21 agosto 2013