di Giorgio Ponziano. Il ministro lascia tutti di stucco. La platea è qualificata, formata prevalentemente da operatori della sanità. Del resto, anche se lei è a Ferrara per sostenere il candidato governatore alla Regione del Ncd (si voterà domenica 23 novembre) il convegno che le è stato cucito addosso riguarda il futuro del servizio sanitario. E Beatrice Lorenzin candidamente ammette: «Ci sono 30 miliardi di sprechi nella sanità». Se lo dice il ministro. Che poi aggiunge: «sì, gli sprechi ci sono, inutile nasconderlo, ma con i costi standard ormai a regime possiamo risparmiare».
Il pubblico è incredulo. Il ministro ha scoperto che si possono risparmiare 30 miliardi, altro che i 4 miliardi tosati da Matteo Renzi alle Regioni che hanno fatto inviperire i governatori, minacciando di bloccare proprio le prestazioni sanitarie. D’altra parte un esempio di spreco è illustrato proprio da un Comitato civico, che chiede al ministro di inviare i suoi ispettori ministeriali: «Hanno speso 13 milioni di euro per ricostruire l’ospedale San Camillo, a Comacchio – dice il portavoce- ma appena pronto lo hanno chiuso affermando che non serviva più: lo presidiamo da un anno e un mese». Un documento con ottomila firme è stato consegnato al ministro, che ha messo anche questo tassello nel puzzle degli sprechi in sanità.
Il convegno è in una sala blasonata, San Girolamo dei Gesuati, e a chi sostiene che la sanità pubblica arretra sotto i colpi dei tagli, il ministro ribatte: «la Corte dei conti ha stimato in 3-4 miliardi il risparmio dai costi standard a regime, con la telemedicina e l’elettronica ci sarebbero altri 7 miliardi di risparmi diretti e 7 indiretti, e ancora 5 miliardi con un ricorso più razionale ai ricoveri e con le cure sul territorio, poi le prescrizioni diagnostiche, il contrasto all’evasione dai ticket, l’educazione preventiva».
Il conto finale è, per la Lorenzin, appunto di una trentina di miliardi. «Visto che siamo in Italia – dice – mi accontenterei anche di un risparmio di dieci miliardi in cinque anni. Per risparmiare serve da subito la digitalizzazione della sanità, centrali uniche d’acquisto, appropriatezza delle prestazioni e quant’altro. Bisogna poi far pagare il ticket anche a quelle persone che prenotano gli esami e poi non si presentano, perché queste non sono rimpiazzabili ed allungano le liste d’attesa».
Aggiunge: «Occorre chiudere le falle organizzative anche perché negli anni la logica dei tagli lineari é stata una scusa utilizzata dalle Regioni per non riformare il processo. Se qualcuno mi chiedesse se 112 miliardi di euro della spesa sanitaria sono adeguati, risponderei sì in questo momento. E non sono troppi, sono quello che abbiamo e dobbiamo preservarli. Se però mi chiedessero se sono spesi bene, risponderei di no. L’impiego delle risorse non è efficiente: la sanità è come un enorme acquedotto pieno di buchi».
Rimane senza risposta la domanda: più che parlare di sprechi e salire in cattedra non sarebbe meglio mettere in atto provvedimenti concreti in modo da voltare davvero pagina? Non basta aprire il cahier de doleances come fa il ministro Ncd parlando del servizio sanitario nazionale: «Il nostro ssn gode di buona salute, il punto è se continuerà a farlo nel futuro, sapendo che la popolazione italiana sta invecchiando senza che questa si ricambi e quindi il problema della sostenibilità del welfare si porrà molto presto in un Paese come il nostro che prevede un accesso universalistico alle cure».
Bisogna agire. E il ministro ha un sussulto di renzismo: «Il momento delle scelte è adesso poiché la crisi comporta un abbassamento della spesa. In Italia spendiamo il 6.9% del pil per la sanità, a differenza di Francia, Germania e Regno Unito dove si arriva anche fino al 10%. Per contenere la spesa però sono serviti tagli lineari, blocchi dei turnover in alcuni casi anche da dieci anni e commissariamenti in mezza Italia. Abbiamo tenuto, ma questa si chiama emergenza, e non può quindi essere una soluzione ordinaria». Parlano gli esperti del settore. Secondo Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe: «Oltre il 25% degli sprechi in sanità è conseguenza della prescrizione/erogazione di interventi sanitari inefficaci e inappropriati perché il ssn preferisce introdurre continuamente sul mercato trattamenti di efficacia non provata piuttosto che investire in ricerca comparativa indipendente, generando conoscenze utili a ridurre gli sprechi. Per iniziare basterebbe l’1% del fondo sanitario nazionale».
L’ufficio studi di Confartigianato ha calcolato che la spesa sanitaria tra il 2003 e il 2013 è cresciuta del 32,7%. Un ritmo doppio rispetto all’aumento del Pil nel medesimo periodo, pari al 16,3%. Nello stesso periodo le Regioni che hanno aumentato maggiormente la loro spesa sanitaria sono quelle del Nord. A guidare la classifica: il Friuli-Venezia Giulia, (+49,6%) e la Provincia Autonoma di Trento (+ 47,8%). Nella zona alta della classifica compaiono anche Lombardia (+46,9%), Emilia-Romagna (+44,7%) e Toscana (+42,6%). Queste ultime, sono le regioni che, secondo il ministero, hanno la sanità migliore d’Italia, insieme al Veneto. Aumenti considerevoli sono comunque avvenuti anche nel Sud: Sicilia +31,2%, Calabria + 31,1, Campania +26,8, Abruzzo +20.9.
Da notare che i ticket coprono appena l’1,3% di una spesa sanitaria fuori controllo, tanto che incominciano a farsi sentire le voci di chi vorrebbe limitare il potere delle Regioni, accentrando in tutto o in parte il ssn.: “la spesa è esplosa proprio con il trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni – dice Beatrice Lorenzin – trasferimento a cui non è corrisposto un aumento dell’efficienza e sono cresciute le disparità esistenti tra le varie parti d’Italia, innescando un meccanismo perverso».
Ancora più esplicita è la senatrice Linda Lanzillotta, vice-presidente del Senato, di Scelta Civica: «Su 200 miliardi di spese totali delle Regioni – spiega – 112 vanno alla Sanità, 72,5 sono destinati ad altre politiche (in particolare Istruzione, Formazione, Assistenza sociale, Trasporti, Territorio) e 12,5 sono assorbiti da spese di amministrazione. Escludendo la sanità, dunque, il costo del funzionamento degli apparati burocratici è di circa il 17% della spesa gestita. Si impone, dunque, un ripensamento sul numero, sul ruolo e sul costo delle Regioni in una prospettiva di consolidamento dei conti pubblici e di inevitabile riduzione della spesa».
Il sistema sanitario nazionale conta 643.169 dipendenti, l’1,1% della popolazione italiana, il 2,7% della popolazione attiva. È tra i primi datori di lavoro del Paese. Prima che affondi sarà meglio guardarci dentro.
ItaliaOggi – 19 novembre 2014