Nel giudizio civile, per accertare la responsabilità di un sanitario o di una struttura ospedalieria, non è necessaria la certezza, ma basta l’elevata probabilità. Lo ribadisce il Tribunale di Taranto nella sentenza del 4 gennaio 2016 che ha condannato un’azienda sanitaria locale a risarcire il danno patito da un minore per la degenerazione di un’appendicite acuta non tempestivamente diagnostica.
I genitori del minore, che accusava forti dolori addominali con vomito, lo avevano accompagnato al pronto soccorso; dopo una consulenza pediatrica e una chirurgica, il ragazzo era stato dimesso con un antidolorifico. A distanza di alcune ore, i sintomi si erano riacutizzati e il minore era stato portato di nuovo in pronto soccorso. Era stato ricoverato e tenuto in osservazione per cinque giorni, finché per il manifestarsi di una peritonite acuta diffusa, era stato operato d’urgenza.
I genitori avevano quindi chiesto all’azienda sanitaria il risarcimento dei danni derivanti dall’invalidità permanente e temporanea patita dal figlio, che ritenevano causati dal ritardo nella diagnosi.
Il Tribunale di Taranto, avvalendosi di una consulenza medico legale, aveva accertato che già al momento del primo ingresso in pronto soccorso dagli esami ematici erano emersi dati significativi di un importante stato infettivo (in particolare un numero assai elevato di globuli bianchi); dati che erano stati trascurati, limitandosi i sanitari a somministrare una terapia analgesica. Al secondo accesso al pronto soccorso, la febbre e l’anoressia avrebbero già consentito la formulazione di una diagnosi di appendicite da approfondire tempestivamente con una ecografia addominale. Omissioni e trascuratezze avevano invece consentito la degenerazione di un’appendicite acuta in un processo di gangrena appendicolare con peritonite e accesso pelvico che aveva impedito il trattamento laparoscopico e aveva reso urgente un intervento chirurgico con accesso laparotomico, da cui era derivata una sindrome aderenziale con la complicazione di una cicatrice addominale diastasata.
Il problema era stabilire se questi effetti invalidanti potessero dirsi casualmente connessi con il ritardo nella diagnosi e se vi fosse prova certa che una tempestiva diagnosi li avrebbe evitati.
Secondo il Tribunale tarantino il nesso tra ritardata diagnosi ed effetti lesivi poteva dirsi se non certo, comunque altamente probabile. E ciò è bastato per condannare l’azienda. Difatti, come affermato dalle sezioni unite della Cassazione (sentenze 576 e 581 del 2008), in sede civile la causalità va valutata secondo la regola «del più probabile che non».
Per ricollegare quindi un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista un nesso causale non in termini di certezza (”oltre ogni ragionevole dubbio”, come in sede penale) né di mera possibilità, ma di rilevante probabilità, nel senso che l’azione o l’omissione del singolo sanitario o della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti.
Giovanbattista Tona – Il Sole 24 Ore – 14 marzo 2016