Federico Rampini, Repubblica. È l’avvenimento dell’anno. Ha rischiato di saltare. Travolto dall’orrore per la strage di Parigi; sconsigliato dalle minacce di attentati; forse ingovernabile per le misure di sicurezza. Ora quello sul cambiamento climatico diventa il vertice-simbolo. Prova di solidarietà con il popolo francese da tutti i leader del mondo. Test di resilienza per una nazione che non vuole arrendersi di fronte ai jihadisti. Domenica si apre a Parigi il Cop21, sigla che indica la ventunesima Conference of the Parties sotto l’egida delle Nazioni.
Per due settimane i rappresentanti di 190 paesi si riuniscono per frenare il riscaldamento del pianeta, limitare l’escalation nelle emissioni di CO2, arginare finché si è in tempo i disastri naturali provocati dall’aumento delle temperature nell’atmosfera e negli oceani. Almeno 147 sono i capi di Stato e di governo attesi: un incubo per le misure di sicurezza, che ogni ora vengono rafforzate dalle autorità francesi. Ma è anche l’occasione per portare a Parigi una testimonianza di affetto e di sostegno da tutto il pianeta. Ai margini del summit ci sarà l’occasione per partecipare al lutto e ribadire l’unione della comunità internazionale contro il terrorismo.
Guai a dimenticare l’oggetto del summit, però. Il cambiamento climatico è una sfida non meno temibile del terrorismo, per l’umanità intera. Sì, in pericolo siamo noi e i nostri discendenti, l’espressione “salvare il pianeta” è un sintomo di “antropo-centrismo”: il pianeta esisteva milioni di anni prima e continuerà anche dopo di noi, se lo renderemo inabitabile. La stessa guerra civile in Siria ebbe tra le cause scatenanti una drammatica siccità; uno dei tanti sconvolgimenti naturali a cui saremo sottoposti sempre più spesso, con il costo umano espresso in migrazioni di massa, impoverimento, violenza. Gli scienziati sono sostanzialmente unanimi nell’indicare la soglia da non oltrepassare: bisogna impedire che l’atmosfera media del pianeta aumenti di oltre due gradi centigradi. Al di là, si entrerebbe in una dinamica quasi irreversibile.
Sul terreno politico il primo obiettivo di Parigi è “cancellare Copenaghen”. Bisogna superare l’onta di quel summit che nel dicembre 2009 si concluse in un fiasco: paralizzato dallo scontro tra le superpotenze, America da una parte, Cina e India dall’altra; con l’Europa spettatrice impotente nella battaglia dei veti. Ma da allora qualcosa è cambiato. L’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco ha rafforzato la consapevolezza di una sfida comune per il genere umano; potrebbe contribuire a ridurre le resistenze in alcuni ambienti della destra americana, negazionisti sul clima ma sensibili ai richiami etici e religiosi. Una svolta geopolitica si è delineata un anno fa a Pechino nel vertice tra Barack Obama e Xi Jinping. In quell’occasione il presidente cinese annunciò un piano ambizioso per la riduzione delle emissioni carboniche con l’obiettivo di fermarne la crescita entro il 2030 o prima; un impegno- chiave visto che la Cina è ormai di gran lunga la più grande generatrice di CO2. Soprattutto, quell’accordo segnò una svolta nell’atteggiamento di Pechino: la rinuncia all’approccio conflittuale e rivendicativo del passato, quando la leadership cinese aveva impostato le sue riforme ambientali come altrettante “concessioni” all’Occidente sviluppato, lesinandole in nome del fatto che noi paesi ricchi abbiamo inquinato per due secoli prima degli altri. Dal novembre 2014 Xi ha cominciato a usare un linguaggio diverso, consapevole che è un interesse strategico della Cina combattere il cambiamento climatico, visti i danni che ne sta pagando e che cresceranno a dismisura. Manca all’appuntamento un terzo grande protagonista, l’India di Narendra Modi. Pur corteggiato da Obama, Modi è rimasto fermo sull’atteggiamento rivendicativo. Anzi l’India è ormai la vera leader del fronte degli emergenti, che continuano a vedere nei tagli alle emissioni di CO2 un terreno negoziale sul quale vogliono più concessioni dai paesi ricchi. Al centro della diatriba Nord-Sud c’è la scarsità di aiuti dai paesi industrializzati per finanziare la riconversione alle energie rinnovabili: solo 100 miliardi di dollari promessi nel 2009, e neanche quelli sono stati effettivamente versati.
Lo stato dell’arte alla vigilia dell’appuntamento di Parigi è insoddisfacente. 170 paesi, che rappresentano il 90% delle emissioni carboniche, hanno presentato i loro piani nazionali. Ma per ora la sommatoria di questi piani – anche ammesso che vengano realizzati scrupolosamente – porterebbe a un aumento di 2,7 gradi nella temperatura media del pianeta, sfondando la soglia fissata dagli scienziati. Lo conferma l’ultimo rapporto Onu: «Con i piani attuali non si evita un aumento sostanziale delle emissioni da qui al 2030».
Ciascun paese porta a Parigi il peso delle sue contraddizioni. Obama è il presidente più “verde” che l’America abbia avuto, vuole che Cop21 diventi un «segno distintivo» della sua eredità politica. Ha fatto cose coraggiose e perfino drastiche, come le norme sulle centrali elettriche che ridurranno del 26% le emissioni entro il 2025, o il veto al maxi- oleodotto col Canada. Ma tra un anno si vota e se gli americani dovessero eleggere un presidente repubblicano molte delle riforme di Obama potrebbero essere smantellate. Le dinamiche di mercato giocano in più direzioni. Il progresso tecnologico è inarrestabile nelle fonti rinnovabili, oggi l’energia solare prodotta in California costa l’80% in meno dall’epoca di Copenaghen. Ma al tempo stesso è crollato il prezzo del petrolio, la benzina è scesa sotto i 2 dollari al gallone per la prima volta dal 2004, col risultato che tra gli automobilisti americani torna di moda il Suv, veicolo energivoro e inquinante.
Tant’è, l’americano medio continua a emettere tre volte più CO2 del cinese medio. L’Europa, che avrebbe molte ragioni per considerarsi il primo della classe sui temi ambientali, ancora deve rimettersi dallo scandalo Volkswagen che ha intaccato le credenziali verdi della Germania. Inoltre il Vecchio Continente ha le sue contraddizioni interne, che l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi ha esposto qui a New York nel forum del Council for Foreign Relations: per bilanciare l’alto costo delle rinnovabili sovvenzionate, molti paesi europei continuano a consumare carbone in modo significativo, cioè la peggiore delle energie fossili. Il mix rinnovabili più carbone è a dir poco schizofrenico.
Lo scetticismo sugli esiti di Parigi ha indotto Hollande – molto prima degli attacchi terroristici – a rivedere l’agenda dei lavori, collocando l’arrivo dei capi di Stato all’inizio (30 novembre) anziché alla fine (15 dicembre) del summit. I cinici ne danno una chiave di lettura pessimista: così i leader evitano di «metterci la faccia», saranno già partiti quando il summit si chiuderà, una débacle non li coinvolgerà personalmente.
Il consigliere strategico di Obama, Ben Rhodes, cerca di essere realistico e rassicurante al tempo stesso su ciò che bisogna attendersi da questo grande summit: «Tutti abbiamo imparato le lezioni più amare, da Copenaghen e anche dal primo vertice di Kyoto. Per essere raggiungibili, gli obiettivi devono essere fissati e adottati con convinzione da ciascun paese, non si va avanti a colpi di imposizioni esterne».
Repubblica – 26 novembre 2015