Giuseppe Bottero. Il sindacato ha capito che l’epoca della difesa è finita, ma per dialogare davvero bisogna promuovere una generazione di rappresentanti competenti». Bruno Manghi, sociologo, è convinto che la missione del sindacato non sia affatto esaurita. Però è arrivato il momento di cambiare marcia: i leader, spiega, devono abbandonare gli studi televisivi e aprirsi, davvero, al confronto con i lavoratori. «Non esiste alcun Paese al mondo dove due, tre volte la settimana, i dirigenti sindacali sono in tv a dare giudizi sull’universo – dice -. Basta, il loro lavoro è un altro».
Professore, perché la sfiducia nel sindacato cresce anche tra i lavoratori dipendenti?
«Non generalizziamo. I dati ci dicono che, ovunque si facciano le elezioni dei rappresentanti, la grande maggioranza dei lavoratori, impiegati compresi, va a votare. E in Italia, tra i lavoratori attivi, la quota di adesioni al sindacato è ancora nettamente superiore alla media europea».
L’età media però è alta…
«Vero. Per i giovani incontrare il sindacato è più difficile».
Sembra che il sindacato non sia stato capace di comprendere le dinamiche dei nuovi lavori. È davvero così?
«Su questo punto bisogna fare attenzione: quelli che stanno veramente cambiando sono i lavori “classici”. In fabbrica, oggi, si lavora in gruppo, con i robot. La contrattazione serve, ma questa è l’epoca della partecipazione. Spero che i dirigenti sindacali assecondino questo processo, che è naturale».
Come?
«Bisogna parlare con i lavoratori, Di Vittorio lo capì già negli Anni 50, quando dopo una sconfitta clamorosa nel voto per le commissioni interne alla Fiat cambiò il gruppo dirigente della Fiom».
Come possono reagire i sindacati a questo clima di sfiducia?
«I leader devono essere in grado di interpretare i passaggi difficili e cambiare. Il sindacalismo della retorica, delle generalizzazioni in televisione, ha stufato. Penso anche gli stessi sindacalisti».
La Stampa – 14 settembre 2015