di Sergio Rizzo. Il taglio delle società partecipate è ancora un rebus. Nonostante esista una legge che ne prevede la razionalizzazione. Ma un recente rapporto della Corte dei conti evidenzia che delle 8.186 amministrazioni sottoposte all’obbligo, soltanto 3.570 l’avevano rispettato, due mesi dopo la scadenza. Senza incorrere, tra l’altro, in nessuna sanzione. Se non si muovono gli enti locali, analoga inerzia si registra al ministero dell’Economia che ha la facoltà di intervenire.
Spirerà finalmente Rete autostrade Mediterranee, che ha un dipendente fisso e otto fra amministratori e sindaci? Oppure la Sogesid, che sopravvive da vent’anni a dispetto di ogni logica, al cui timone si alternano manager designati con il manuale Cencelli? O piuttosto Risorse per Roma , società dalla natura incomprensibile, controllata dal Comune di Roma che riempie ogni mese le sue 600 buste paga? Stavolta, dicono, fanno sul serio. Le amministrazioni dovranno predisporre dei piani rigorosi per la razionalizzazione della miriade di società partecipate. «E se dopo un anno non le avranno chiuse o fuse con altre efficienti», ha promesso il ministro Marianna Madia ieri a Enrico Marro sul Corriere , «lo farà il ministero dell’Economia per loro». Ce lo auguriamo. Anche se nel frattempo qualche spiegazione ci sarebbe dovuta.
Perché l’obbligo per legge di mettere a punto quei piani esiste già. Ed esiste da più di un anno: dicembre 2014. Le legge è la numero 190. Era previsto anche un termine per la razionalizzazione delle 8 mila partecipate: il 31 marzo del 2015. Peccato che moltissimi enti locali abbiano replicato con un bel «Marameo!». Racconta un recente rapporto della Corte dei conti che delle 8.186 amministrazioni sottoposte a quell’obbligo, soltanto 3.570, due mesi dopo la scadenza, l’avevano rispettato. Meno della metà. Senza incorrere, evidentemente, in alcuna sanzione.
Quanto al fatto che tocchi al ministero dell’Economia provvedere ai tagli se non lo faranno gli enti locali, la voglia del Tesoro di impugnare la scure è tutta da dimostrare. Basta scorrere l’elenco delle società statali che il ministero dell’Economia avrebbe potuto chiudere d’imperio: ma si è sempre guardato dal farlo. Rete Autostrade Mediterranee, una delle 2.671 società pubbliche con più consiglieri che personale, ne è la testimonianza vivente. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli ne aveva proposto la liquidazione? Per tutta risposta, pochi mesi prima di approvare la legge del dicembre 2014 sul taglio delle partecipate, ecco la nomina di un nuovo presidente nella persona di Toni Cancian, ex pdl ora alfaniano che aveva perso il seggio al Parlamento europeo. Ed ecco arrivare con lui Christian Emmola, presidente del Pd trapanese. Idem la Sogesid . Creata oltre vent’anni fa nel solco della legge Galli sui bacini idrici ma rivelatasi subito inutile e proposta più volte per lo scioglimento, si è sempre salvata grazie a provvidenziali interventi politici. Ora è presieduta da Marco Staderini, ex consigliere Rai, ex amministratore delle Ferrovie e dell’Acea, ritenuto un fedelissimo casiniano. Per non parlare di Studiare Sviluppo , società di consulenza del Tesoro (ma a che pro il ministero dell’Economia deve avere una società di consulenza)?
Il fatto è che nella stessa amministrazione centrale continuano a esistere situazioni che cozzano evidentemente con il buon senso. Perché, ad esempio, il ministero della Difesa deve avere una società che si chiama Difesa Servizi per gestire «i marchi, gli stemmi e gli emblemi» delle forze armate, e perché deve amministrarla un ex deputato del Pd (Pier Fausto Recchia)? Perché poi i Beni culturali e le Infrastrutture devono possedere una società che serve a distribuire fondi a varie iniziative, guidata dall’ex ambasciatore Ludovico Ortona (classe 1942)? La domanda andrebbe girata a chi l’ha resuscitata dalla morte decretata in parlamento due anni e mezzo fa con un emendamento, ossia la deputata forzista Elena Centemero, ma anche a quanti l’hanno votato. Oltre a chi, da allora, non si è mai curato di insistere nella sepoltura.
Si potrebbe purtroppo continuare. Ma se è così difficile chiudere le società statali dall’esistenza discutibile, se non addirittura dannosa, possiamo immaginare l’enormità della missione di ridurre il numero delle società locali dalle circa 7.500 censite a meno di mille, come suggeriva l’inascoltato Cottarelli. Tenendo conto che i pacchetti azionari detenuti in queste società da Regioni, Province e Comuni tocca la cifra di 28.096.
Qualche settimana fa il commissario prefettizio di Roma Francesco Paolo Tronca si è trovato nelle condizioni di prolungare per due anni la vita della compagnia assicurativa controllata dal Campidoglio ( Adir ), nonostante ne fosse stato decretato lo scioglimento dal consiglio comunale decaduto. L’uscita di scena dell’ex sindaco della Capitale Ignazio Marino ha poi lasciato aperti alcuni dossier, come quello delle farmacie comunali (320 dipendenti) o di Risorse per Roma : un «advisor» del Comune che impiega un esercito di persone. Seicento circa.
Non poche, certo. Ma sono un terzo appena dei dipendenti dei quattro casinò municipali controllati dai Comuni di Sanremo, Venezia e Campione d’Italia e dalla Regione Valle D’Aosta. Che in 10 anni hanno perduto, facendo i biscazzieri, qualcosa come 300 milioni.
Dal Nord al Sud, dove la presunta morte delle Province continua a regalarci sprazzi di sorprendente creatività. Prendete Ar.Me.Na. società creata nel 2007 dalla Provincia di Napoli (allora di centrosinistra) per rastrellare fondi europei. Ora è stata trasformata in una ditta di manutenzione in house per gli immobili provinciali, ivi compresa la cura del meraviglioso «bosco inferiore della reggia di Portici». Ha 329 addetti. Quasi quanti erano quelli di Capitale Lavoro, controllata dalla Provincia di Roma per i servizi dell’impiego. Erano: perché giusto dopo l’abolizione delle Province il loro numero, pensate, è passato da 307 a 350 .
Il Corriere della Sera – 25 gennaio 2016