Il Corriere del Veneto. Continuano a crescere i numeri dell’epidemia in Veneto. Anche ieri, nonostante la «zona rossa» in vigore da dieci giorni, si sono registrati altri 57 morti e 1.801 contagiati (e nel report della sera mancavano i dati dell’Usl di Treviso, da inizio pandemia una delle più colpite: non è riuscita a caricare per tempo i test rapidi nel sistema). Attualmente le persone positive sono 38.346 e la pressione ospedaliera continua a salire: altre 58 persone sono state ricoverate nei reparti «non critici» (Infettivi e Pneumologie), per un totale di 1.800; altre 12 in quelli di terapia intensiva, che ora hanno 261 posti letto occupati.
«I Covid hospital hanno sospeso l’attività ordinaria (sono dieci in tutto il Veneto, ndr ) e già da qualche giorno si dedicano esclusivamente ai pazienti Covid – spiega il direttore dell’Emergenza Paolo Rosi – ora cominceremo a sospendere visite, interventi e ricoveri non urgenti anche negli altri ospedali, così da spostare progressivamente il personale nelle terapie intensive che si stanno riempiendo. Una situazione non facile, visto che ora medici e infermieri devono essere impiegati anche nella campagna vaccinale». La Regione non ha dato indicazioni univoche alle Usl: «Ciascuna di esse sarà libera di decidere quali attività sospendere e quali invece no, anche in base alle liste d’attesa che si sono venute a creare».
Nel frattempo è stato elevato a 600 il numero dei posti letto di terapia intensiva operativi, perché l’obiettivo è quello di tenerne sempre liberi una novantina, indispensabili per fronteggiare non solo le sventagliate del virus, ma anche possibili emergenze extra-Covid, dagli incidenti stradali a quelli sul lavoro, passando per gli infarti o eventuali complicazioni post operatorie (va tenuto conto, infatti, che ai 261 posti letto occupati dai pazienti Covid in terapia intensiva se ne aggiungono altri 286 occupati dai pazienti non-Covid).
«La curva cresce – spiega Rosi – ma non in maniera sostenuta come nella seconda ondata, quella di ottobre e novembre», che tutto il personale medico ricorda come i mesi dell’incubo. «Dopo di che ci prepariamo comunque a fronteggiare il peggio, perché se non si inverte la rotta, anche a questo ritmo raggiungeremo per la fine di marzo i 300 posti letto di terapia intensiva occupati, il che avrebbe un impatto molto grave e preoccupante sui nostri ospedali». La media è di 5-10 nuovi ingressi al giorno, ma si registrano anche picchi di 25-26 e non c’è sufficiente turnover, i dimessi non sono altrettanti.
Rispetto alle precedenti ondate, a parte il ritmo meno sostenuto, l’altro elemento di differenza è il dimezzamento della percentuale di ultra-ottantenni in gravi condizioni: «Siamo passati dal 5% al 2,5% sul totale dei ricoverati in terapia intensiva e questo è frutto della vaccinazione, che in queste settimane si è concentrata proprio sugli over 80 – spiega Rosi -. Di contro, registriamo un aumento della fascia 60-69 anni, salita al 37%, la stessa percentuale della fascia 70-80 anni, che invece rimane pressoché stabile, come la 50-59, al 16%, e gli under 50, al 7%».
Quanto agli altri dati, la terza ondata si presenta sostanzialmente in linea con la prima e la seconda. La percentuale dei ricoverati sul totale dei positivi è al 4,7% (come a dicembre; un anno fa era al 20%); quella di coloro che hanno bisogno di cure intensive è dello 0,6% (anche qui come a dicembre; un anno fa il dato era più che doppio, 1,9%). «Anche la mortalità in terapia intensiva sta calando di 2-3 punti percentuali rispetto al 50% di dicembre, un dato che spieghiamo sia con l’abbassamento dell’età media dei pazienti in ingresso, più over 60 che over 80, ma anche con il miglioramento delle terapie e la maggior esperienza accumulata nelle cure». Dimezzata anche la percentuale delle persone che, arrivando da casa, entrano subito in terapia intensiva, perché già gravi: erano il 60% durante la seconda ondata, oggi sono il 30%.