PIÙ l’Italia frana, più arrivano soldi. E più arrivano soldi, più l’Italia frana. Quando alla prossima “bomba d’acqua” ci si troverà a piangere un altro morto bisognerà tenere a mente questo paradosso. Perché è lì che incastrato un pezzo di passato, presente e, forse, di futuro del nostro Paese. Un Paese che usa il denaro destinato a combattere il dissesto idro-geologico per pagare gli stipendi degli impiegati comunali e la carta per le stampanti. Un Paese che racimola, negli ultimi 15 anni, 5,6 miliardi di euro tra fondi statali e comunitari. Ma ne lascia 2,3 nel cassetto, con il rischio che l’Europa se li riprenda.
nsomma, quando piove in Italia non frana soltanto la terra. Ma cadono anche cascate di soldi, che finiscono spesso nel posto sbagliato.
I MAXI INADEMPIENTI
A Napoli, per esempio, hanno un concetto “originale” di urgenza. Nel 1999 il ministero dell’Ambiente girò alla Regione Campania 5 milioni di euro «per l’intervento urgente del Costone San Martino». Quindici anni fa. Eppure al momento non si è visto ancora nulla. Ma così è, dal Veneto alla Sicilia: 321 milioni di euro destinati a fermare il dissesto non sono mai stati utilizzati. Fermi in qualche capitolo di bilancio. Tradotti, sono 198 opere, proprio come il Costone San Martino, urgentissime, già finanziate e per le quali, a luglio di quest’anno, non erano stati aperti i cantieri.
Oggi tutti gridano allo scandalo Genova. Ma la Provincia del capoluogo ligure deve ancora spiegare cosa ha fatto con gli 8 milioni ricevuti nel 2002: dovevano servire per mettere in sicurezza la parte finale del fiume Entella. Così come la Regione Molise una qualche giustificazione la dovrà pur fornire se, dal 2008, non è ancora riuscita a sistemare il torrente Biferno (a Termoli), nonostante abbia avuto 15 milioni di euro per farlo. E c’è da capire perché il comune di Trapani da 5 anni conserva in bilancio 11,8 milioni del governo per quella barriera sottomarina che dovrebbe difendere la costa e che ancora non c’è.
LE ALTRE STRADE
Ma non c’è soltanto immobilismo. Una struttura ad hoc, creata nel giugno del 2014 nella Presidenza del consiglio e affidata a Erasmo D’Angelis, ha scoperto almeno un centinaio di casi (su 5mila lotti monitorati) nei quali i fondi pre-2009 erogati per il dissesto idrogeologico e per legge a esso vincolati, sono finiti in realtà in altri rivoli di bilancio.
Ad Avola, per esempio, con una parte dei 3 milioni per la protezione della costa hanno pagato gli stipendi dei dipendenti comunali. A Siracusa e Agrigento i 5 milioni «per il consolidamento della falesia di Punta Carrozza e Punta Castelluccio » e i 2,3 milioni «per il rafforzamento del sottosuolo del centro abitato» si sono trasformati in «spese correnti dell’amministrazione ». Dunque utilizzati, per dire, a pagare le bollette, comprare la carta negli uffici, acquistare la cancelleria, e chissà cos’altro. «Spulciando tra 15 anni di bilanci dei ministeri — racconta D’Angelis —emergevano fondi non spesi e altre storie. Sono un’offesa alle vittime delle alluvioni. Con il ministro Galletti vogliamo mettere in piedi un piano realistico che non “insegua” le emergenze, ma le prevenga».
UN POZZO CON IL FONDO
Un obiettivo assai ambizioso. Soprattutto a vedere come vengono utilizzati i soldi per la prevenzione. In Veneto, per la tragedia di Refrontolo, da un’inchiesta della Forestale avviata dopo una frana è emerso che lavori «causa dissesti » ne avevano fatti. Ma per realizzare una vigna scavata nella roccia. E poi. Le immagini dell’alluvione del Gargano del 6 settembre sono rimaste impresse a tutti: due vittime, migliaia di euro di danni, un paradiso inghiottito dal fango. Per evitarlo, a nord, nel sub-Appennino Dauno avrebbero dovuto realizzare opere per fermare i disastri. I pozzi di Biccari dovevano essere profondi 8 metri e 20, a leggere i progetti. E invece: il vigile del Fuoco, durante un sopralluogo, non è riuscito a scendere sotto i cinque. «Li hanno fatti più corti, per risparmiare, ma così non servono a nulla», dicono ora i Finanzieri che stanno indagando su questa storia di soldi inutili e progetti affidati, per esempio, alla moglie dell’assessore dell’epoca che ha incassato la parcella nonostante i finanziamenti fossero stati ritirati.
COMMISSARI INUTILI (E COSTOSI)
Ma se si vuole parlare di sprechi, non si può non andare al 2008 quando all’Ambiente arrivò Stefania Prestigiacomo. Il ministro raccolse 2 miliardi di euro e stipulò accordi con le Regioni per realizzare 1.647 opere. «Voltiamo pagina», disse allora. L’idea era togliere la gestione dei finanziamenti agli enti locali, troppo lenti e inefficienti, e affidarla allo Stato. Tant’è che nel 2010 nominò 19 commissari di governo, ognuno con il suo stipendio da 150mila euro all’anno (poi ridotto a 100mila).
Dovevano gestire le gare di appalto e controllare che i lavori venissero effettivamente consegnati, ma, come insegna la storia del Bisagno genovese mai allargato per colpa di una sfilza di ricorsi al Tar, servirono a poco. A giugno di quest’anno, quando sono stati revocati da Renzi, i cantieri aperti erano appena 183. Meno del 12 per cento del totale. Eppure i commissari della Prestigiacomo sono costati allo Stato, in poco più di tre anni, 8 milioni di euro in buste paga.
Ma chi erano quei commissari? Per lo più pensionati, scelti direttamente dal ministro del Pdl. Nell’elenco questori e generali in quiescenza (Calabria e Veneto), un prefetto non più in ruolo (Sardegna), due direttori generali dell’Ambiente in pensione (Molise e Marche), come pure un professore universitario (Campania), che ha aperto un solo cantiere sui 190 previsti.
Tra loro anche Maurizio Croce, che però ha fatto bene, tanto che Renzi lo ha poi scelto come soggetto attuatore in Sicilia e Puglia: «Tranne in queste due regioni e in Calabria — racconta oggi — nel resto d’Italia i commissari hanno rinunciato al loro ruolo e hanno scelto di delegare l’utilizzo dei fondi per il dissesto agli enti locali, attraverso convenzioni. Di fatto tornando alla situazione precedente al 2009». Risultato: dei 2 miliardi stanziati dalla Prestigiacomo sono stati utilizzati appena 800 milioni. Ma il resto ora l’Europa lo rivuole indietro
Repubblica – 28 ottobre 2014