Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo. Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. È uno scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale. Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini.
Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035. Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.
Il giallo dei numeri
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa pensionistica in rapporto al Pil. Una risalita ci sarà, dopo anni di curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti, ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo». Una fotografia che alimenta l’ansia se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011. Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e anzi dice che quella legge potrebbe non bastare. Raffaele Marmo, collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni». Marmo è poco convinto anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030, in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.
Il problema demografico
Gian Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute sulle nuove generazioni. «Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».
Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività. I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni. «Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila unità. Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038». Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si equivarranno, finché, da lì a poco, non avverrà il sorpasso. La spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65, l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo minimo storico dall’Unità: 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro, la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni. Il problema della sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì – spiega Blangiardo – sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil, cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni. Le statistiche però devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli, baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe aspiranti. «Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila euro al mese – racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi, secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese.
Sui numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti. Chi, come gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le rigidità della Fornero attraverso varie ricette. Per esempio, la flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri, l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007. La prima prevede fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%). Per le coperture, Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7 mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.
Entrambe le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole, del futuro». Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi precisi. Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida lui?». In effetti è un paradosso. Però Pedretti fa anche mea culpa: «Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo al contributivo».Il tabù Fornero deve essere affrontato senza ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5 anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10 in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.
Il Paese sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un carico insopportabile. «Sì, ma bisogna stare attenti – continua Cazzola – siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche occupazionali». Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero. «Se la quota di posti bloccati è al 5% – sostiene Boeri – il tasso di assunzioni scende al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere occupazione e produttività.
Fisco e immigrati
Una delle proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale finanziato in parte dalla fiscalità generale. In commissione Lavoro alla Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella maturata dal lavoratore con il contributivo. Sarebbe un salto culturale verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani. Tra loro, Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione». Gli over 95 passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo. Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il 2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40 miliardi. C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori. È il fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi, ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione attiva, «perché anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la pensione». Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato. Intanto, l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha ricevuto gli assegni previdenziali. Un tesoretto di contributi lasciati all’Italia di 16 miliardi di euro. In vista del 2030, non si butta via nulla.
La Stampa – 17 aprile 2016